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"Ho trovato una serie che fa per te, c’è del sangue dei fantasmi e però pare che sia un thriller” mi dicevano dalla regia.
Ci ho pensato su un attimo e mi sono detta: "ok, faccio un tentativo".
È così che mi sono approcciata a “Tabula rasa”, serie tv fiamminga di 9 puntate distribuita su Netflix il 15 marzo.
Come faccio per ogni serie ho iniziato la visione in lingua originale.
Se il tedesco di "Dark" è stato durissimo ma affrontabile e il francese di “Les revenants” a tratti quasi piacevole, con il fiammingo sono durata quattro minuti netti per poi passare al doppiaggio italiano.
Archiviato l’incidente doppiaggio, ho deciso di resistere nonostante l'effetto “Centovetrine” che il pathos italiano impone.
Prima impressione: noia.
Una lentezza quasi insostenibile e una sorta di ripetitività che mi hanno messo davvero a dura prova per almeno tre puntate.
Solo che poi mi ci sono abituata.
Ma parliamo della storia.
Annemie e il marito si trasferiscono nella casa dei nonni di lei insieme alla figlioletta Romy, ottenne a tratti insopportabile e a tratti adorabile (così per confonderci fin dall’inizio). Mie soffre di amnesia dopo aver avuto un grave incidente d’auto mesi prima e combatte con le sue visioni e dei fantomatici spiriti abitanti della casa che pare vedere solo lei.
La storia si svolge in due tempi storici: il periodo post incidente con il trasferimento nella casa e tre mesi dopo con Mie in ospedale psichiatrico che cerca di ricostruire i fatti dei mesi precedenti perché pare risultare l’ultima persona vista insieme a un uomo scomparso.
Dopo tre puntate la mia mente si è adeguata al ritmo lento dei fiamminghi, la curiosità ha iniziato a muoversi e a tenermi legata alla visione, facendomi passare la tremenda voglia di abbandonare.
Lasciando da parte qualsivoglia aspettativa nel complesso ho trovato questa serie di nicchia molto piacevole, nonostante colpi di scena un filino scontati e uno svolgimento spesso prevedibile (se siete appassionati del genere non vi serviranno certo intuizioni fuori dal comune per capire alcune cose prima di vederle).
A prescindere dalla storia, merita la bellissima performance di Veerle Baetens nei panni di Mie, abbastanza sconosciuta in Italia ma qualcuno di voi l’avrà sicuramente vista in “Alabama Monroe - Una storia d’amore” (se siete tra gli sfortunati come me vi sono vicina, quel bellissimo film è stato così devastante che se ci penso ancora mi viene da inzuppare non solo fazzolettini di carta ma magliette maglioni e chi più ne ha più ne metta).
Insomma scontatino, ma molto emotivo.
Noiosetto ma poi coinvolgente.
Bella la fotografia, interessante la storia nel complesso.
Sono solo 9 puntate e tutte lì pronte per essere guardate tutte di fila.
Dategli una chance anche se non è il telefilm della vita. E mi sono pure commossa, sì.
© Giulia Cristofori