Stagione 6 - American Horror Story: Roanoke

Stagione 6 - American Horror Story: Roanoke

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American Horror Story, un argomento delicato vista la grossa delusione delle ultime due stagioni della celebre serie tv targata Ryan Murphy. La paura di una fan come la sottoscritta nell’affrontare una nuova stagione è sempre quasi pari alla curiosità di rispondere alla domanda “farà così schifo anche stavolta?”.
Domanda legittima soprattutto ora che Ryan Murphy e compagnia bella hanno deciso di mettere in atto per il lancio della season 6 la più grande strategia commerciale mai attuata nel campo delle serie TV: non anticipare niente.

Li avevamo lasciati con Lady Gaga che faceva orge in pozze di sangue dentro un hotel pacchiano, chiedendoci perché attori del calibro di Kathy Bates si prestassero ancora a partecipare al tripudio del trash celebrato in modo mediocre come fosse un lungo videoclip di gusto discutibile.
Non possiamo però negare che la nuova strategia di Murphy abbia funzionato.
E a noi “Roanoke”, il primo episodio, è piaciuto. Ha rispolverato quel vecchio fremito e quella vecchia voglia di vedere il secondo, cosa che non succedeva dai gloriosi tempi di Murder House e Asylum (soprattutto l’ultimo).

Ma andiamo con ordine e senza spoiler.
Murphy ci regala un ritorno al passato già dalle prime scene dell’episodio 1. Come stile e come ambientazione. Possiamo definire “Roanoke” quasi scarno ma sorprendentemente lineare, senza nessuna accozzaglia di 3500 personaggi buttati in un unico mucchio, finalmente.
La grande novità apportata rispetto alle stagioni precedenti  è la struttura “documentaristica” della prima puntata. I personaggi partecipano ad un reality che richiama il nome della serie “My Roanoke nightmare” durante il quale raccontano la loro vicenda personale alternata a una ricostruzione dei fatti con attori.
Senza entrare nel dettaglio, siamo messi di fronte a vari piani di realtà (notevole anche la citazione di The Blair Witch Project, il docu-horror del 1999 che tutti ricordiamo per la sua fin troppo eccessiva realtà). Ma lo schema funziona, nonostante il fatto che siano gli stessi protagonisti a raccontare la loro storia ci fa intendere che se la caveranno levando un po’ di pathos all’insieme.
Le atmosfere riprendono lo stile di Murder House e gli edifici tornano ad essere protagonisti veri (anche se, in realtà, questa è una costante dall’inizio della serie).

Possiamo dunque dedicare un paragrafo all’esultazione: la centralità degli edifici ci è stata restituita. In ogni serie lo sviluppo della storia e dei personaggi passava obbligatoriamente attraverso un’imponente e opprimente presentazione visiva della struttura che avrebbe ospitato la storia dell’orrore americana di turno. Lontane dall’essere semplici sfondi e accessori scenografici, per quanto scelti e proposti con innegabile abilità, queste peculiari costruzioni riuscivano a racchiudere e simboleggiare il leitmotiv della serie stessa.

Ovviamente ci riferiamo all’eleganza cupa e perturbante della Casa degli Omicidi di cui percorrere i corridoi, custodi di grida lontane e recenti, accarezzando le boiserie e gli onnipresenti vetri Tiffany. Ma non possiamo non pensare anche al granitico e ostile manicomio Briarcliff, carcere di mostruosità e torture, alle sue illuminazioni fredde e lampeggianti su muri sudici e impenetrabili, del candore austero dell’Accademia Miss Robichaux, covo contemporaneo delle streghe dei nostri giorni e luogo di conflitti senza tempo. Di certo la debolezza del tendone di Circus, relegato in automatico in un malinconico secondo piano, e l’esibizionismo saturo di dettagli ma povero di senso e capacità espressiva del Cortez di Hotel sono qualcosa di difficilmente perdonabile. E se quantomeno la ridondanza inconsistente dell’hotel ben si sposava con la bolgia di sangue, culi e paillettes, diventa irrimediabilmente imperdonabile lo spreco della chance data dall’introduzione del sacro tendone del circo, scenario perfetto dalle innumerevoli possibilità nonchè simbolo e tetto mobile sotto al quale si avvicendano magie e orrori in un continuo vortice di illusione variopinta e dolorosa. Ma il futuro sembra volerci riservare una speranza, arrotolata lungo scale a chiocciola dalla curva ampia, intrecciata fra gli rami scarni incorniciati da lucernari dalla simmetria ipnotica e nascosta in cantine dimenticate insieme a chissà quali altre amenità. Vediamo che fine faranno fare a questa larva di interesse risvegliato.

In “Roanoke” scompare l’uso esasperato del fisheye e dei fronzoli estetici e ritorna quella tensione che solo un personaggio che fa la tipica mossa stupida da film horror, come ad esempio scendere in cantina appena sente un rumore, ti sa regalare.
Non abbiamo ancora capito quale sarà il tema della serie e dove vorrà andare a parare. Girano voci della possibilità che gli episodi siano storie autoconclusive, cosa che però non risulta dalla visione di questa prima puntata. Quel che pare certo è che tutto ruoterà attorno alla leggenda americana di Roanoke in cui si narra la scomparsa in circostanze misteriose di 115 coloni nel 1590, andando così a celebrare come sempre l’onnipresente patriottismo tipico della serie.

La cosa che, personalmente, più mi ha sconvolto è stata l’assenza della sigla.
Chi segue la serie sa che il main theme è sempre stato un punto di forza incredibile grazie all’utilizzo di immagini mirate al contesto e accostate allo stesso tema musicale condito di rumori volutamente disturbanti.
Insomma, cosa ci aspettiamo dalla nuova stagione (nonostante sia senza sigla)?
Io mi aspetto un ritorno alle origini e un mantenimento della linearità abbracciata in questo primo episodio.

Staremo a vedere!

© Giulia Cristofori e Ombretta Blasucci

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