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Quando ho letto HBO, Abrams e Nolan insieme ho avuto un piccolo brivido, anzi ne ho avuti due distinti.
Uno di paura e uno di eccitazione. E aspettative altissime.
La paura di inciampare in un altro colosso come Lost che ti seduce irrimediabilmente e poi, dopo tanti anni, ti lascia l’amaro in bocca e dall’altro lato l’eccitazione di riempirsi gli occhi con una cosa che si preannuncia visivamente grandiosa già dal trailer.
Dopo aver visto la prima puntata credo di aver avuto gli stessi due brividi.
La prima cosa che mi ha colpito del trailer, lo ammetto, è stata: Anthony Hopkins. Venero Anthony Hopkins, è stato uno dei miei pilastri saldi da quando a otto anni tormentava una giovane Jodie Foster parlandole di agnellini. Non è un mistero che il “Silenzio degli innocenti” sia entrato prepotente nella mia vita molto presto, riservandosi uno dei gradini più alti del podio nel mio cuore.
Anthony Hopkins è, qui, il dr. Ford detto “Il creatore”.
La metafora religiosa in Westworld appare fortissima fin dai primi frame. Ma di cosa parla, più nello specifico, questo Westworld?
Letteralmente “mondo west”, un vero e proprio mondo fittizio, un parco di divertimenti a tema western che tanto ricorda, nell’idea, quel Jurassic Park d’esordio solo che al posto dei dinosauri qui troviamo umanoidi programmati per far divertire una fetta di utenti parecchio ricca.
Ma il vero scopo di Westworld pare proprio che sia, più che far divertire qualcuno, quello di giocare a fare Dio. Ed ecco che quell’uomo vitruviano (immagine principale della locandina) su cui vengono costruiti gli androidi si fa portatore di un messaggio divino molto forte.
Un altro aspetto importante di questa serie, ispirata al film “Il mondo dei robot” del 1973, è quello dell’umanizzazione degli androidi. Forse il più spaventoso e oscuro.
Il dr. Ford e il suo team infatti si premurano di programmare gli androidi aggiungendo emozioni e comportamenti con lo scopo di renderli sempre più reali.
Ammetto che, personalmente, questo aspetto mi spaventa parecchio. L’umanizzazione degli androidi o comunque delle macchine mi ha turbato profondamente dai tempi di “Her” e dei primi episodi di “Black Mirror”. L’idea che sia un futuro possibile (e probabilmente nemmeno troppo lontano) mi fa paura. L’idea di provare sentimenti per una macchina mi riempie di angoscia e l’angoscia è la prima emozione che ho provato guardando Westworld. L’angoscia che, però, affascina e funziona.
Quel potere di controllo assoluto su una mente, anche se simulata, che davvero ti fa sentire Dio.
Quella sottile adrenalina, poi, impiantata nella possibilità di sbagliare e dell’imprevedibilità delle conseguenze degli sbagli stessi.
Il terzo aspetto che colpisce al primo impatto è la ricorsività delle azioni. Ce lo mostrano mentre caratterizzano il personaggio di Dolores Abernathy (interpretata magistralmente da Evan Rachel Wood) e ci fanno vedere la sua routine quotidiana all’interno del parco. Il modo in cui compie le stesse azioni ogni giorno e la possibilità che questa routine venga cambiata da qualche visitatore.
Questo primo episodio convince parecchio, anche se lo dico sottovoce sempre per la storia dei brividi di cui parlavo prima. Perché con JJ Abrams bisogna sempre andarci cauti con l’entusiasmo.
Dove va a parare questo pilot?
Bè non pensate che si possa giocare a fare Dio senza avere alcun problema.
Prepariamoci alla discesa negli inferi dell’informatica e della scienza, perché penso che nei prossimi episodi ci aspetterà un bel caos.
© Giulia Cristofori