Luci soffuse e un bicchiere di vino rosso fra le mani.
Premo play e i miei quasi trent’anni svaniscono improvvisamente.
Mi rivedo per un attimo piccola. Ho otto anni e cammino fra gli scaffali di una piccola biblioteca di paese insieme a mamma. Fra le sue mani il romanzo de “Il Silenzio degli Innocenti”. Riesco a ricordare solo quella farfalla gialla stampata sulla copertina nera e quell’odore di carta un po’ invecchiata. Quella farfalla gialla che ha segnato definitivamente la mia vita.
“Li senti ancora gli agnellini, Clarice?” sussurravo nelle orecchie di mia madre, avvicinandomi di soppiatto quando cucinava dandomi le spalle, facendola sprofondare in attimi di puro terrore mentre io ridevo compiaciuta.
Le mie amiche giocavano ad essere Sailor Moon e io ero Clarice Starling.
A otto anni sapevo già a memoria buona parte dei dialoghi e mi aggiravo per casa strisciando contro i muri, fingendo di stringere una pistola fra le mani.
Clarice Starling, promettente recluta dell’FBI, viene scelta per indagare su un Serial Killer di giovani donne conosciuto con il nomignolo di Buffalo Bill. Per scovarlo, Clarice si vede costretta a dialogare con uno psichiatra piscopatico e cannibale, il Dr. Hannibal Lecter.
Clarice e Lecter instaurano, dopo una iniziale diffidenza, un rapporto basato sulla vera e propria fiducia reciproca. Anthony Hopkins è magnetico. I suoi occhi blu e il candore della sua pelle risaltano, sotto le luci aggressive dei neon, nel buio della prigione. I suoi monologhi sono indimenticabili. Quella maschera che gli copre il volto è diventata la colonna portante delle mie visioni.
“Il Silenzio degli Innocenti”, traduzione un po’ approssimativa del titolo originale (The Silence of the Lambs) che è molto più pregno di significato ai fini della narrazione stessa, è uno di quei film che ha conquistato il podio assoluto del mio cuore.
Amo la regia, la storia, gli attori, le musiche, i dialoghi. Soprattutto il famoso dialogo quasi ossessivo sugli agnelli, che mette a nudo la giovane Clarice davanti al mostro. Quell’innocenza spezzata che ci lascia inermi a farci travolgere dalle supposizioni e dalle domande pungenti di Lecter, che da interrogato diventa interrogatore. Quella raffica di parole veloci in una continua corsa contro il tempo, basate su una fiducia la cui esistenza ci sembra quasi impossibile.
Tutto il film si regge sul tema del cambiamento, evidenziato su ogni personaggio. Hannibal cerca di cambiare la sua posizione all’interno della prigione, richiedendo una cella con una finestra che gli permetta di avere una vista decorosa sul mondo per continuare i suoi disegni senza bisogno di affidarsi solo alla memoria. Clarice è fuggita da una vita mediocre di campagna per diventare una promessa dell’FBI.
Dulcis in fundo Buffalo Bill, serial killer transessuale che cerca di effettuare il cambio di sesso e infila nella gola delle sue vittime il bozzolo di un lepidottero. E quale miglior simbolo di cambiamento se non la farfalla? Da bozzolo a crisalide, la farfalla è l’icona della trasformazione per eccellenza.
Anche stavolta ci troviamo di fronte all’impossibilità di schierarci ed è letteralmente impossibile vedere Hannibal Lecter come il mostro che è.
Lecter è affascinante, colto, ipnotico. Quando fissa la camera con gli occhi famelici è impossibile non sentire un brivido di paura che lascia posto alla chimica che sfonda il televisore ed inebria i nostri salotti. È per questo che quando lo vediamo ascoltare musica classica ad occhi chiusi quasi non notiamo che è ricoperto di sangue e ci sentiamo pervasi da quella pace che in quel momento pervade anche lui. Come se fossimo dentro quella gabbia con lui e ci sentissimo improvvisamente liberi.
Questo film si fa metafora di una scalata nel nostro io più profondo, fino al punto in cui si radicano le nostre paure e i nostri sensi di colpa.
Quegli agnellini innocenti le cui grida ci hanno marchiato a fuoco, magari quando eravamo bambini, e non riusciamo a dimenticare.
Quella voglia di riscattarci sempre, di esorcizzare ogni male e ogni colpa o presunta tale.
Mettetevi comodi e versatevi un bicchiere di Chianti, lessate un piatto di fave.
Invitate un amico “per” cena e il companatico fatelo offrire a lui.
Gli agnellini, un giorno, smetteranno di gridare.