Scritto da Greta Rocco -
- Illustrato da da Jari Di Giampietro
Chissà dove
Fu in prima media che capitai in classe con lei, una bambina dai capelli rossi avvinghiati l’uno all’altro, dagli occhi verdi con una piccola goccia marrone diluita nella pozza brillante; le gote perennemente rosate, decorate da costellazioni di lentiggini, risaltavano ancora di più sul candore del viso. Alice, quella bambina seduta all’ultimo banco, con il naso rivolto alla finestra e gli occhi persi chissà dove, lontano dalle zeppe della professoressa Giori, la cui suola sbatteva sul pavimento, scandendo i minuti quando si muoveva nello spazio asettico che ci ospitava. Lontano dalle lettere stampate sulla lavagna, dai numeri sfiorati dalle lancette, dall’urlo stridulo della campanella e il caos dell’intervallo; dalle confezioni accartocciate e gettate via e le gambe delle sedie che strisciavano avanti e indietro; dai banchi che rimanevano sempre lì, immobili, ad accoglierci e salutarci ogni giorno. Alice era sospesa, oltre la classe, la finestra, il mondo. Fuori dal tempo. Così tanto fuori che non mi accorsi di trovarmi in terza media, sempre con lei all’ultimo banco e il suo sguardo chissà dove.
A volte la guardavo e cercavo di capire come funzionasse. Per me era una divinità, un’entità eterea caduta per sbaglio sulla terra. Era impossibile che fosse sempre lì, fuori dalla finestra, con la testa sorretta dalla mano e la penna stretta tra quei denti che non mostrava mai; e che poi comparisse per qualche effimero istante, giusto il tempo di prendere l’ennesimo dieci all’interrogazione. Poi, spariva di nuovo lì, in quel chissà dove, pronto ad avvolgerla con la sua aura misteriosa, e portarla via da me.
Non la guardavo davvero; spesso le rivolgevo qualche occhiata di sfuggita, cercando di scorgere la sua figura senza muovere la testa di un millimetro. Avevo paura di corromperla con i miei occhi da “persona normale”, di intaccare la sua bellezza divina con il mio sguardo noioso, delineato dalle abili mani delle lezioni che mi appesantivano i lineamenti. Invece, il viso di Alice era incorruttibile, mai rovinato da uno sbadiglio che potesse stravolgerle l’ordine dei connotati.
Presto capii che non mi bastava più immaginare il suo naso all’insù, o le ciglia lunghe che sbattevano davanti le pupille smarrite; o la bocca che addentava il cappuccio della penna rigorosamente nera, o il labbro inferiore all’infuori e l’alito caldo a serpeggiare via, per spostare la ciocca ribelle che le cadeva sugli occhi. Così, un giorno, mentre la professoressa Giori faceva stridere il gessetto sulla lavagna, osai spostare leggermente verso destra il capo, e indugiai sulla figura di Alice. In quella stessa frazione di secondo, il suo viso fu della stessa idea e ruotò sulla mano che lo sorreggeva, incontrando i miei occhi curiosi. Sentii le palpebre spalancarsi al vedere le ciocche inanellate incorniciarle il viso, posarsi sul naso, per essere subito allontanate quando scosse la testa; e quando quei sipari scarlatti si aprirono, rivelando lo spettacolo dei suoi occhi su cui si stendeva un velo lucente, quasi fosse rugiada, il mio stomaco si attorcigliò su se stesso e il respiro mi si mozzò. Ma tutto questo fu nulla dinanzi all’incantesimo che Alice lanciò, per avvolgermi e trasportarmi in un chissà dove dominato dal suo sorriso.
Il mio cuore iniziò a nel petto, e potei giurare di sentirlo cadere e ruzzolare come da un dirupo, per ritrovarmelo sotto i piedi. Il sorriso di Alice era indescrivibile: caldo come il primo sole della primavera, gelido come il respiro di un vento invernale che, sfiorandoti per sbaglio, ti fa sussultare nella giacca. Un paradosso, un binomio ossimorico, una dicotomia: fiero e fragile, austero e dolce, impenetrabile e delicato. Un codice criptico, impossibile da decifrare, come quel chissà dove in cui volava via.
Non seppi mai il motivo di quel sorriso, o cosa la fece ritornare quaggiù per posare il suo sguardo su di me; so solo che divenne una sorta di appuntamento quotidiano, un’abitudine che mi vedeva inseguire il suo viso più di una volta, per scorgere gli occhi farsi più piccoli sotto le ciglia e i denti scoprirsi nella loro lucentezza. Un gioco le cui regole erano dettate da Alice, da quel sorriso cui fuggivo con le guance in fiamme. Ci impiegai giorni per riprendere le redini e dare una strigliata al mio cuore; infatti, dopo infinite prove allo specchio in cui tentavo di dipingere un sorriso che non fosse una virgola orizzontale, con coraggio andai fiero a scuola, pronto per uscirne vittorioso.Il momento era dietro l’angolo, la professoressa Giori strinse il gessetto e posò il braccio dietro la schiena, indice che stava per scrivere sulla lavagna. Non persi tempo e ruotai il viso, ritrovandomi faccia a faccia con Alice e il suo sorriso illeggibile. Mi diedi un pizzico sul braccio per risvegliarmi dal solito stato di trance e mossi le labbra. Nonostante ancora oggi mi chieda che quadro avesse prodotto la mia bocca tremolante, tutto sembrò funzionare: il sorriso di Alice, che da sempre navigava nella sicurezza, le vacillò sulla bocca spegnendosi per un istante, per poi cercare di recuperare terreno. Le uscì una sorta di ghigno sbilenco, febbricitante, che le fece girare immediatamente il volto in preda all’imbarazzo, per ritornare nel suo chissà dove. Avevo vinto.
La mia vittoria, tuttavia, diede vita a un altro gioco, questa volta basato su chi distoglieva prima lo sguardo. Mi ricordo che un giorno la lotta era talmente ardua che fu la professoressa Giori a porre fine alla nostra guerra all’ultimo sorriso, a colpi della sua bacchetta sul mio banco. Mi girai di scatto, ritrovandomi i suoi seni prosperosi sollevati dalle braccia incrociate e gli occhialetti che ricadevano sulla punta del naso sudato; indimenticabili le chiazze rossastre che si stendevano sulla pelle raggrinzita del collo, probabilmente a causa della rabbia. Mi dovetti mordere l’interno della guancia per evitare di scoppiarle a ridere in faccia, e quando sembrò che fossi sul punto di cedere, Alice intervenne alzando la mano e prendendosi le colpe. Ovviamente, venne graziata a causa della reputazione da secchiona che la ergeva un gradino sopra tutti, e non mancò di farmelo notare con un occhiolino che mi spezzò il respiro.
I giorni passavano, i sorrisi si susseguivano, presto sostituiti da smorfie o facce buffe, creazioni scomposte dalle nostre risate silenziose. Mi innamorai dei dettagli del viso di Alice così tanto che ogni sera sognavo differenti combinazioni che li vedevano protagonisti, scardinate poi dal mosaico che mi regalava l’indomani. Costruimmo un nostro linguaggio, un codice scandito da infinite espressioni con cui comunicavamo nel silenzio, nel nostro chissà dove. Poi, una mattina di gennaio in cui il panorama biancheggiava al di là delle finestre, tutto cambiò.
Alice scomparì nel nulla, quasi fosse stata inghiottita dalla prima neve dell’anno. Per giorni la demmo per dispersa e iniziarono a nascere leggende piuttosto raccapriccianti. Ogni giorno, ancor prima che la professoressa Giori aprisse la bocca per pronunciare il primo cognome sull’elenco, alzavo la mano e chiedevo se ci fossero novità, smettendo di respirare per i successivi secondi; puntualmente la risposta secca mi schiaffeggiava in pieno viso: «Tornerà presto», e il mondo riprendeva a girare.
Alla fine tornò, ma non sembrava Alice. Aveva i capelli a caschetto e lo sguardo spento, come se un’ombra oscura si fosse fusa con lei. Ricordo che, quando osai posare i miei occhi su di lei, notai quanto la sua pelle ricalcasse il candore della neve che ricopriva il prato oltre la finestra. Anche il colore dei capelli pareva diverso, come se una pennellata di bianco le avesse schiarito il rosso che tanto infiammava attorno al viso. I boccoli non erano più definiti, anzi parevano spaghi intrecciati in una matassa disordinata; soprattutto, l’infinità di sorrisi che tanto avevo conosciuto svanì come quella neve sciolta dagli sguardi del sole.
Non ci fu più il nostro chissà dove, quel mondo che ci eravamo costruiti sorriso dopo sorriso, segreto custodito dalle mura su cui rimbalzavano le nostre tacite parole. Alice tornò pian piano nel suo chissà dove, scrutando il dolce arrivo della primavera che bussava sempre più forte alle nostre finestre; e mentre noi tutti sbocciavamo come i fiori, Alice non apriva i petali, appassendo gradualmente quasi fosse stata inghiottita dal più cupo inverno. Finché non ci furono più stagioni o un chissà dove, ma solo la stanchezza che le scolpiva il volto, tanto che spesso la vedevamo assopita sul banco, coi capelli a coprirle gli occhi come lenzuola, sempre più corti.
Poi, non ci fu semplicemente più Alice. L’estate era ormai alle porte e tra di noi si poteva tastare l’ebbrezza per la fine della scuola. Alice sembrava una presenza fantasmatica che librava nell’aria senza palesarsi completamente: tutti sapevano ma non dicevano. Non sarebbe mai tornata, e quando ci dissero che un mostro invisibile ce l’aveva portata via, nemmeno il grido dell’ultima campanella riuscì a spezzare il silenzio tombale che cadde su di noi. Anzi, esso parse un’eco lontana, un rumore ovattato dal dolore che ci fischiava nelle orecchie. Nessuno pianse, o per lo meno quel giorno. Ognuno accantonò in un angolo la notizia, per cercare di svolgere i soliti automatismi, ma anche respirare era divenuto un atto difficoltoso. Io crollai a casa, mentre immaginavo che il cuscino fosse quel mostro che aveva distrutto il nostro chissà dove, masticandolo tra le fauci per poi sputarlo ripieno di bile acida.
Non dimenticai Alice e il suo sorriso, che col tempo imparai a decifrare e a sciogliere. La cercai sempre nelle donne che ho amato: in Dalila, che amavo con le mani; in Claudia, con gli occhi; e in Beatrice, che ora riposa al mio fianco, con le parole.
La cercai tanto, ma non trovai mai quell’Alice che amai con il cuore.
© Un racconto di Greta Rocco - Illustrato da Jari Di Giampietro - Editing di Paolo Perlini
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