Un volo | Racconti Indigeribili

Un volo | Racconti Indigeribili

Scritto da Roberta Spagnoli -
- Illustrato da da Lenu Banci


Un volo 

Anche i pettirossi migrano; almeno quelli che non si schiantano sulle vetrine, ingannati dal sole di settembre.
Se ne vanno le rondini, le gazze, gli aironi (ma chi li vede gli aironi, in città). Nemmeno a Mia era capitato di vederli dal vero, a pensarci bene. Alla televisione forse, o in qualche libro che leggeva da bambina. Che ti importa se ho visto mai gli aironi, diceva, quello che conta è il volo. Tu apri le ali e vai e vai e vai. Dove? Lontano, rispondeva. Così lontano da sentirci finalmente vicini io e te, senza stupide domande sugli aironi lasciate lì a vagare nell’aria di questa stanza stantia.
Io tacevo, ché il silenzio a volte fa sentire più vicini: ascoltavo il suo respiro salire in alto, verso le geometrie scure degli storni che studiavano nuovi piani di volo nel recinto di cielo fra i palazzi 4A e 4B, in quella periferia di polvere gialla.
Nessuna voce dal campetto di basket sbiadito in cortile. Restavamo in casa a passarci il pallone di mano in mano. Non migliorava la nostra mira, ma almeno il tempo passava e io speravo che lei si decidesse a restare, e passare di nuovo la palla.
Poi venne il tempo delle notti lunghe, inutili per chi non è amico del sonno né della veglia gonfia di pensieri. Dopo quel buio senza sogni capii che sarebbe stato inutile parlare, pensare, baciare, giocare, saltare o piangere.
Aveva deciso di andare la piccola Mia e niente l’avrebbe fermata, nemmeno le smancerie delle cocorite che continuavano a covare uova nella gabbietta sul balcone.
Lei si sentiva lontano. Il mondo è da un’altra parte e tu non capisci le rondini appese al filo dell’alta tensione: non vedi come vibrano in cerca della scossa che le porterà via?  Mia sussurrava appena, sembrava parlasse tra sé.
Per me quelle rondini erano soltanto note storpie su un pentagramma sbagliato, caccole scure a sporcare il cielo. A volte non sai dare senso ai pensieri, diceva Mia, rendendomi gli auricolari che dividevamo sullo stesso battito.
Così aveva colto la prima occasione ed era partita, sicura che laggiù sarebbe stata più vicino a me e a tutto il resto del ciarpame che affastellavamo nelle nostre giornate vaghe. Perché da lontano le cose sformate riprendono il contorno, aveva sussurrato appena prima di prendere il volo.
Approfittando di un piccione di passaggio era riuscita ad alzarsi in cielo. Traballante e insicura la vidi scomparire dentro una nuvola di cenere, abbarbicata a quell’uccello dal fiato grosso e dal cuore pieno di catrame.
Soltanto dopo le piogge ebbi di nuovo sue notizie: uno stormo di tordi passò sul mio tetto gridandomi che là, nella nuova primavera, Mia si era sistemata. Socchiudendo gli occhi immaginai il suo contorno immobile sotto il sole e cominciai a sentirla di nuovo con me.
Notai subito che si era fatta ancora più piccola e riusciva così ad accovacciarsi comodamente dentro la mia testa, appena sotto l’attaccatura dei capelli. Lei stava lì, giorno e notte, come un segreto, ma presto mi accorsi che il mio canarino aveva capito: dalla sua gabbietta continuava a guardarmi diffidente mentre parlavo, ridevo, giocavo (a volte litigavo, è vero) con la piccola Mia.
Lui non sapeva nulla di voli migratori, di viaggi oltreconfine, di cieli, di orizzonti, eppure sapeva di Mia. Fingeva indifferenza dondolandosi sull’altalena, cinguettando tranquillo. Io rispondevo al suo canto sperando che una volta o l’altra mi spifferasse come avesse scoperto la verità ma lui si ostinava a non capire… Eppure io sono bravo a imitare le modulazioni del suo fischio, dico sul serio.
Con Mia, invece, era diverso; a poco a poco eravamo diventati identici. Di giorno in giorno, la sentivo sempre più coinvolta nelle mie stesse passioni. Parlava con la mia voce, cantava le mie canzoni. Non mi rendeva più gli auricolari infastidita: ascoltava il mio ritmo ogni volta fino alla fine, e ancora.
Poi, in un pomeriggio di pioggerellina fitta fitta sento bussare alla finestra.
È un gabbiano, in bilico sul mio davanzale. Odora degli scarichi del Lambro, dei pesci gatto del Seveso; non credo sappia il movimento del mare, ma posso sbagliarmi. Sulle ali non c’è traccia di sale e nemmeno un brandello di alga, solo odore di benzina.
Ha le zampe contorte e mutilate come certi colombi disgraziati che abitano gli anfratti di piazza del Duomo. Mi sale sulla mano e posa un piccolo pacchetto sgualcito. Subito rotola giù dal davanzale in una caduta che pare suicida. In un attimo lo vedo riprendere il vento, senza suono.
Il pacchetto è mezzo disfatto, il nome di Mia si riesce a leggere a malapena.
Mi trovo fra le mani un piccolo cannocchiale dorato, incastonato di vetri colorati, rifinito con perle di plastica lucida. Una carabattola come quelle che trovavamo da bambini nei distributori dei centri commerciali, ad avere la moneta fortunata. Arrotolato e legato con una cordicella di metallo, un biglietto: “Spero che tu possa vedere vicine le cose lontane, come me”.
In quel plasticone finto riconosco lei, la sua eccentricità un po’ perversa, la mania di improvvisare contrasti, iperboli. Girandolo tra le mani rivedo i suoi vestiti sgarbati, i modi bruschi, i sandali grossi e le collane che fanno inutilmente rumore.
Appiccico gli occhi a quella specie di cannocchiale: comincio a distinguere le gocce, quelle che scendono lente dalla finestra; poi riesco a mettere a fuoco i balconi del palazzo di fronte, zeppi di scatole, bici, rottami e vasi vuoti. Più in alto, un pezzo di cielo scuro di pioggia. Poi, oltre a quelle nuvole, comincio a indovinare terre verdi e campi schiariti da un tentativo di tramonto, l’abisso dietro la fine del cielo e, svanita e sfuocata, un’altra città fatta di tetti, semafori, portoni e finestre accese.
Sulle strisce pedonali vedo lei che passa. Non la riconosco dai capelli, né dalla camminata. Lo sguardo mi sembra il suo, ma forse lo immagino soltanto. Poi, con l’occhio che meno soffre la miopia, guardo meglio dentro la lente di plastica e mi convinco: quella è proprio lei, immensamente lontana.
Nemmeno un’aquila, capace di scovare conigli e cince, fagianelle e lucherini, avrebbe potuto metterla a fuoco. Sembrava uno codirosso svolazzante, incerto tra due semafori gialli. O forse un ciuffolotto scarlatto. Difficile individuare, riconoscere, capire.
L’ho persa, sono sicuro.
Preso da un’ansia incontrollabile che non riusciva a placare nemmeno il tubare lamentoso delle tortore sull’unico ramo rimasto a fare ombra al cortile, ho deciso di raggiungerla per non lasciarla mai più.
Nessun richiamo, nessun cannocchiale, nessun pensiero poteva altrimenti farmela sentire vicino. Nemmeno le cicale riuscivano a incantarmi con i loro stupidi tentativi da farmi cadere in ipnosi, là dove mi ero abituato a subire l’estate immobile. Dovevo abbassare le tapparelle, chiudere le finestre, bloccare il rubinetto del gas, staccare la luce, assicurare il portoncino con doppia mandata e andare.
Era il giorno del suo compleanno quando arrivai da lei.
Per mesi, nel tempo che venne dopo, cercai di imparare di nuovo i suoi capelli, i suoi occhi, i suoi baci. Insieme provammo ad ascoltare di nuovo il canto dell’allodola, all’alba, ogni mattina.
Lei si lasciava conoscere giorno dopo giorno, indulgente e silenziosa. La scoprivo a osservare il mio sonno, a volte, senza osare oltrepassare la soglia dei sogni. (Forse sapeva che avrebbe fatto troppo rumore, là dentro, con quei sandali grossi). Io sbirciavo nei suoi cassetti, quando li lasciava socchiusi per sbaglio... slip soffici come la seta, top di piume stropicciate, qualche biglietto accartocciato. Sacchetti di lavanda senza profumo. Negli abbracci cercavo di indovinare la radice delle sue ali nascoste, sotto la pelle compatta della schiena.
Ma non mi bastò tutta quella fatica per imparare le voci straniere dei suoi cardellini colorati nella gabbia di ferro battuto, né lo stridio dei rondoni sotto il suo tetto.  
Rimasi a mezz’aria, a cercare il vento, nessuna corrente a gonfiare le piume, lei a guardarmi dal suo balcone di fiori.

 
© Un racconto di Roberta Spagnoli - Illustrato da Lenu Banci - Editing di Paolo Perlini


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