Settembre | Racconti Indigeribili

Settembre | Racconti Indigeribili

Scritto da Roberto Ferrini -
- Illustrato da da Federico de Luca


Settembre 

per Geo Milev

 

Una delle guardie aprì, l’altra lo spinse dentro. Cadde sul pavimento della cella. Alle sue spalle lo sferragliare della porta che si richiudeva, sulle mani le gocce viscose del sangue che gli colava dalla faccia. Riuscì a tirarsi su e a sedersi sulla panca. Appoggiò la nuca al muro per rallentare il sangue dal naso. Quindi era davvero la fine. L’ultimo interrogatorio aveva dissipato ogni dubbio residuo. I poliziotti non avevano neanche cercato di nascondere il fatto che ormai le domande erano solo un pretesto, che a loro non importava più niente di quello che lui poteva o non poteva dirgli. Quello che poteva dire lo aveva detto, nessuno avrebbe resistito a tanto dolore. Volevano ammazzarlo e basta. Volse lo sguardo verso la porta e pensò che l’avrebbe attraversata solo un’altra volta. L’idea di morire non lo spaventava. Era già morto una volta, otto anni prima. Sotto bombe inglesi, in un campo scavato di trincee. Ricordava ancora il momento in cui dopo un lasso di tempo inquantificabile aveva sentito delle mani afferrarlo e trascinarlo fuori dal mucchio dei cadaveri degli altri soldati. Aveva la testa aperta ma respirava ancora. Nella catabasi in quell’ammasso di corpi, nel massacro durato quattro anni e di cui quel cumulo era solo un atomo fra miliardi, era convinto di aver visto il mondo per quello che era davvero, finalmente spogliato dai veli che coprono il clangore dei suoi ingranaggi. Tutto quello che aveva fatto dopo quella orrenda resurrezione, dopo le infinite operazioni chirurgiche, nasceva da quella rivelazione. Le poesie, i dipinti, i giornali, il partito. Tutto era mosso dal desiderio di creare un mondo nuovo distruggendo la macchina di cui aveva osservato la disumanità allo scoperto. Si passò una mano sulla bocca e osservò il sangue rimasto rappreso. Settembre. Aveva previsto che prima o poi l’avrebbero arrestato, ma mai aveva pensato che l’avrebbero ammazzato per una poesia. Morire per le proprie idee. Pensò che qualcuno lo avrebbe detto parlando di lui. Il concetto gli parve di un’artificiosità insopportabile. Non riusciva a vedere se stesso come un martire. La sua morte gli sembrava l’esito di un processo molto più meccanico: l’organismo che lo ospitava lo aveva riconosciuto come corpo ostile e i suoi anticorpi si erano attivati per annientarlo. Niente martiri, niente carnefici, solo l’impersonale spietatezza di una legge biologica. E poi, pensò, se anche lui e i suoi compagni fossero riusciti a uccidere quell’organismo, a distruggere quella macchina, cosa sarebbe nato al suo posto? Quali fermenti avrebbe prodotto la putrefazione di quell’enorme carcassa? Nonostante tutto quello che aveva scritto, sentiva di non saperlo davvero. Di non poter essere sicuro che il nuovo organismo sarebbe stato umano dove il vecchio era disumano. Perchè ora, anche nella lucidità retrospettiva data dalla consapevolezza della fine imminente, questo nucleo d’ombra rimaneva. Il dubbio che quella disumanità non derivasse da una stortura occorsa a un certo punto del processo. Che fosse invece l’inevitabile manifestazione di un vizio congenito alla natura umana. Che fosse l’essere umano in sè a essere, al fondo, disumano. Mentre sentiva il proprio corpo sfuggirgli per le botte e il digiuno, si rese conto che per otto anni questo dubbio aveva serpeggiato fra i cespugli più spinosi della sua coscienza, e solo ora gli si rivelava in tutta la sua spaventosità. Bene, se invece di morire per un’idea stava solo morendo contro un’idea, se non aveva niente da costruire al posto di quello che voleva distruggere, allora morire era ancora più facile. Se l’esistenza non poteva essere che questo, la morte gli veniva da strapparla di mano lui stesso a chi gliela sventolava davanti come minaccia. E se il mondo nuovo di cui aveva scritto era un sogno e niente più era forse ancora più splendido, perché se il mondo non poteva essere cambiato erano solo sogni come quello a renderlo almeno tollerabile. Notò che nel buio della cella c’era ancora un fiato di luce da qualche finestra nel corridoio. Fuori il sole non doveva essere ancora tramontato. Avrebbe continuato a sorgere e a tramontare come quel giorno a prescindere da ciò che sarebbe successo quella notte dentro quella stazione di polizia. Mentre la mente cominciava ad annebbiarsi, fece in tempo a sorprendersi di come il pensiero gli infondesse quiete invece che disperazione. Sentì un rumore di stivali nel corridoio, poi lo sferragliare della porta che si apriva. Era pronto.

 

 
© Un racconto di Roberto Ferrini - Illustrato da Federico de Luca - Editing di Chiara Bianchi


Settembre | Racconto | Indigeribili


Ti è piaciuto questo racconto indigeribile? Dacci una mano! Il tuo aiuto ci consente di mantenere le spese di questa piattaforma e continuare a diffondere l'arte.
L'associazione si sostiene senza pubblicità ma soltanto con le tessere associative e l'impegno dei soci.
I Link verso i canali di vendita sono inseriti al solo scopo di agevolare gli utenti all'acquisto.
Sottoscrivi la tessera associativa con una piccola donazione su PAYPAL
Oppure puoi offrirci un caffè.

 

Privacy Policy