Scritto da Marta Grima -
- Illustrato da da Dario Licata
Il numero quattro
Sono nata a Pechino una notte di novembre, quando si respirava aria mefitica, ma non ancora infetta. Il mio primo ricordo è un sottotetto spiovente annerito dal fumo e verdognolo di muffa, rischiarato dalle luci fredde di quattro lampadari industriali a basso costo, polverosi, sibilanti a ogni momentanea interruzione di corrente.
La mia vita ha preso il via nella stanza numero quattro, tra piccole mani indaffarate, getti di vapore bollente e voci rabbiose.
«Carichiamo il lotto quattro», ha gridato un uomo.
Mi hanno gettata in uno spazio ruvido e scuro insieme a molte altre, tutte ammassate contro le pareti, costrette in una posizione innaturale. Non ne sono sicura, ma mi pare di esserci entrata per quarta in quella gabbia infernale.
Conservo impresse nella memoria le interminabili ore al buio, gli sconquassi dovuti alle strade accidentate, il rombo del motore aereo, gli urli degli addetti alla logistica. Appena fuori dallo scatolone, sono stata trafitta da tanti aghi luminosi: i neon di un grande magazzino, lunghi, sottili, accecanti.
«Imbustatele», ha ordinato una donna.
«Quante per pacco?»
«Quattro in ogni involucro».
Ero in ultima fila; davanti a me decine di confezioni, dita pronte ad acciuffarle, commesse estasiate all’idea di battere un conto florido alla cassa. Ho atteso per mesi il mio turno sul metallo gelido del vecchio scaffale arrugginito: le lampade si accendevano alle nove in punto con un crepitio che mi riportava alla fabbrica in Cina e si spegnevano alle diciotto sempre con uno scoppiettio; tutti i giorni senza pause.
Appeso al muro spiccava un quadro che raffigurava il mare al tramonto: un tripudio di colori caldi in contrasto con la realtà circostante, asettica e sterile. La mia tacita lotta al bagliore insensibile e artificiale trovava sollievo negli elementi della tela: il cielo vermiglio, le nuvole aranciate, l’acqua di fuoco, l’orizzonte percorso da sfumature viola, gli uccelli neri con le ali spiegate.
Mi ero rassegnata a raggiungere la mia data di scadenza restando lì, stipata in un negozio all’ingrosso del Nord Italia, ma mi sbagliavo: d’un tratto sono diventata indispensabile, costosa e ricercata. Le persone facevano a gara per acquistarmi, si accalcavano fuori dalla porta all’alba, erano disposte a spendere somme esorbitanti per indossarmi sui loro visi.
E così sono finita insieme alle mie tre compagne nella borsa di stoffa di una signora paffuta, figlia del benessere degli anni Ottanta, periodo di cui conservava le mèches bionde, la permanente e gli orecchini a cerchio.
Mary – così la chiamavano – ha strappato l’imballaggio per disporci sul tavolo accanto a una scatola di biscotti alle mandorle, cinque bottiglie di latte, una dozzina di mele e otto vasetti di yogurt alla vaniglia.
Il mio transito in quella casa è durato poco, giusto il tempo di quattro ore di sonno e poi quattro ore di treno da Bologna a Pescara, incollata alla bocca di Benedetta, la quarta figlia di Mary e Paolo Scotti.
Al porto di Pescara, Benedetta mi ha buttata tra i pescherecci attraccati nel caldo di mezzogiorno, tra le alghe e le bolle di putredine risalite in superficie. Ho cominciato ad affondare con indosso ancora le sue gocce di saliva, mi sono immersa nella schiuma per lavarle via, purificarmi.
Tornata a galla, mi sono abbandonata alla corrente. . Ho superato le barche, i bracci di cemento, le reti da pesca dipanate all’ombra e ho iniziato a navigare verso i flutti infiniti, dorati per il riverbero del sole. Il silenzio rimbombava distratto e appesantito dalla calura della primavera esplosa in anticipo.
«Ehi», ha esclamato una voce.
Non vedevo nulla se non un brillio a pochi metri di distanza.
«Sono qua», ha proseguito il mio interlocutore ignoto.
Ho intravisto una bottiglia di plastica rossa oscillare in balia del vento, soffocata da un tappo grigio.
«Dove vai?», mi ha chiesto.
«A morire».
«Puoi farlo qui».
«Ma io voglio andare oltre l’orizzonte.».
«Perché?»
«Forse lì c’è un mondo migliore».
La bottiglia ha ripreso il suo cammino sbatacchiata dalle onde, muta come i pesci che le nuotavano a fianco.
Di colpo un’altra eco lontana: un monologo sommesso, amplificato dalle raffiche di scirocco.
«Se mi chiedessero di rappresentare la speranza con una scena, sarebbe questa: una foglia secca, adagiata al suolo, che da lontano osserva le gocce d’acqua staccarsi dai rami di un albero, irrorare la vegetazione sottostante. È uno stillicidio perpetuo, struggente, logorante, straziante, una tortura per la foglia morta, condannata a terra fino a quando non sarà spazzata via dal vento e si disintegrerà nell’aria tramutandosi in polvere. La speranza è la goccia d’acqua che lambisce la foglia prima che vada distrutta. Impossibile, no? Persino la foglia sa che non arriverà nessuna goccia d’acqua a ridonarle la vita. La speranza non è che una chimera».
«Chi è là?», ho domandato intristita da tanto cinismo.
Era una busta di quelle che si vedono al supermercato. Il giallo paglierino si confondeva con il manto dorato tutt’intorno, le pieghe del materiale biodegradabile risultavano deformate sotto il peso del liquido imbarcato: la scena era instabile e nauseante.
«Tu speri in un mondo migliore oltre l’orizzonte».
«Sì».
«Ma l’orizzonte non esiste, è una linea fittizia, non può separare né dividere».
«Non lo sapevo».
«Non c’è niente al di là e comunque, che senso ha arrivarci se tanto devi morire?»
Me ne stavo immobile, incerta se protrarre la mia deriva verso il nulla o affogare lì, insieme alla malinconia della busta a quattro centesimi. All’improvviso un moto di orrore mi ha fatta sobbalzare all’indietro con un piccolo vortice, allontanandomi dalla busta.
«Lo so, faccio schifo», ha ammesso un assorbente insanguinato e impregnato d’acqua.
«Scusa, non è colpa tua», mi sono giustificata.
«È a causa della degenerazione umana se io e te adesso siamo qui».
«Già, è per questo che voglio andare oltre l’orizzonte, per vedere se lì è meglio».
«Non sei la prima che sceglie di morire là», mi ha spiegato.
«Davvero?»
«Sì, ma alcuni sono tornati indietro dopo aver scoperto che non c’è alcun confine da oltrepassare».
«L’orizzonte non esiste», ho precisato.
«Esatto. Andando avanti troverai un’altra terra, altri umani».
«E quindi che devo fare? Morire qui?»
«È quello che farò io», ha tagliato corto lui.
L’assorbente è sparito, ingioiato da una voragine improvvisa; io ho continuato a solcare il mare..
Non so cosa troverò alla fine del viaggio, ma arrendersi è peggio che sperare invano. Forse incontrerò un posto nuovo, diverso, in cui il numero quattro è un semplice presagio di morte, una credenza del popolo cinese, e non la condanna a subire il sordido degrado di quelle che chiamiamo persone.
© Un racconto di Marta Grima - Illustrato da Dario Licata - Editing di Chiara Bianchi
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