Cabaret Belzebù | Racconti Indigeribili

Cabaret Belzebù | Racconti Indigeribili

Scritto da Pasquale Sbrizzi-
- Illustrato da da iosonogiuda


Cabaret Belzebù 

Quel sabato sera, come sempre, il Cabaret Belzebù faceva onore al suo nome di ispirazione demoniaca: era affollato come una bolgia infernale di dantesca memoria. Centinaia di anime, sagome deformate dalla coltre di fumo artificiale, ballavano forsennate al ritmo di una techno martellante e di luci intermittenti dai mille colori lisergici. In quel pandemonio, Xenia si faceva largo a fatica tra la folla scalmanata in direzione dei bagni del locale, maledicendo l’istante in cui, giusto poche ore prima, aveva accettato la proposta della sua amica Mariangela di accompagnarla in quel posto così gremito.
«Dai, ! Non vorrai mica trascorrere un altro fine settimana da sola a casa a piangere per quel baccalà di Fortunato!» l’aveva rimproverata Mariangela. «Stasera vestiti carina e vieni con noi al Cabaret Belzebù! Ci divertiremo un mondo!».
E , in netto contrasto con il secco rifiuto che rimbombava nel suo placido cervello di detrattrice delle serate di bisboccia, aveva detto di sì. La ragazza, in opposizione alla sua routine, aveva infatti deciso di dare un’opportunità alla generosa proposta della sua cara amica, il cui scopo, così in buona fede, era quello di farle riacquistare un po’ di fiducia nel genere umano dopo che l’ex-fidanzato storico, il succitato Fortunato, le aveva spezzato il cuore scappando a Belo Horizonte con un viado brasiliano conosciuto su un’app di incontri per feticisti. Xenia, però, avendo constatato la piega catastrofica che stava prendendo quella serata, si era pentita amaramente di aver accettato l’invito: non riusciva proprio a divertirsi al Cabaret Belzebù, quella baraonda caotica di ubriaconi e allucinati che, piuttosto che un luogo in cui dimenticare per un po’ le frustrazioni e i problemi della vita, si stava rivelando un crimine atroce contro i suoi poveri timpani e il potenziale prologo della madre di tutte le emicranie del giorno dopo.
Gli altri membri della comitiva, ovvero Mariangela, il suo ragazzo Matteo e la loro amica Alfonsina, invece, si erano perfettamente mimetizzati con la fauna scapestrata della discoteca.
Mariangela, dopo una quantità di cocktail che avrebbe ridotto in coma etilico un’intera squadra di muratori bergamaschi, era collassata su un divanetto nel fondo del locale in preda alla sbornia. Matteo ne sorvegliava distrattamente le spoglie sconfitte dall’alcol, manifestando nel frattempo un interesse molto più spiccato per i fondoschiena ben allenati delle clienti più giovani: se si fosse azzardato a compiere una tale imperdonabile nefandezza mentre la sua “dolce” metà era sveglia e lucida, con molta probabilità, si sarebbe beccato un paio di ceffoni, diverse ore di silenzio punitivo e, castigo ben più drammatico per un esemplare di maschio vaginocentrico come lui, niente sesso per settimane. Ma, con sollievo di Matteo, non c’erano testimoni oculari che potessero riferire alla fidanzata del suo comportamento irrispettoso: Alfonsina, infatti, si era appartata chissà dove con un marcantonio nero tutto muscoli, dreadlock, piercing e tatuaggi che aveva conosciuto quella sera e non si era fatta ancora rivedere.
Xenia, comunque, dopo aver evitato per un soffio che un energumeno di un quintale e mezzo sotto acidi le cadesse addosso e la riducesse in poltiglia, riuscì a raggiungere la porta del bagno ed entrò.
L’odore che si respirava in quel posto dimenticato da Dio, poco più di un bugigattolo illuminato dalla luce sfarfallante di un neon ronzante, era a dir poco abominevole. Le pareti, senza finestre, erano ricoperte di disegni di organi genitali maschili, insulti osceni, numeri di cellulare di presunte prostitute e recensioni poco lusinghiere di prestazioni sessuali. La porta della toilette femminile, contrassegnata dal classico omino in gonnella che la differenziava da quello maschile accanto, era tempestata di adesivi pubblicitari di tatuatori-piercer, collettivi universitari trans-femministi e eventi sadomaso. Xenia la aprì.
Orrore.
Il gabinetto intasato traboccava di un ripugnante liquame brunastro in cui galleggiavano mozziconi di sigaretta, profilattici usati, assorbenti rosacei, larve di scarafaggio annegate e, ovviamente, merda, tantissima merda.
Le pareti, imbrunite dal lerciume e incancrenite dalla muffa, erano imbrattate con scarabocchi indecifrabili e strisciacce di materia fecale incrostata: se i microbi della Terra avessero dovuto eleggere una loro El Dorado, senza alcun dubbio, quest’ultima sarebbe stata il bagno delle donne del Cabaret Belzebù.
Il primo impulso di Xenia, nauseata da quel tripudio insalubre di potenziali infezioni e incubi rupofobici, fu quello, atavico, di fuggire a gambe levate. Tuttavia, con l’urina che premeva per essere espulsa, la ragazza si fece coraggio: prima assicurò la porta del WC con il suo chiavistello malconcio, poi, turandosi il naso per sopportare il fetore, si posizionò in piedi su quel sanitario colmo di immondizie per evitare qualsivoglia contatto e cominciò a svuotare la vescica. Fu in quel momento che la giovane, mentre dava inizio a quell’atto di minzione poco ortodosso, sentì qualcun altro entrare nella toilette degli uomini.
«Che faticaccia farsi strada tra questo branco di cazzoni, porca troia!» sbuffò una voce maschile.
«Dai, muoviti, coglione!» rimproverò una donna, «non ce la faccio più!».
«Sei proprio una tossica di merda, Claudia!» rispose l’uomo con una risata sguaiata e canzonatoria, «che poi, cristoddio, non dovresti farti le spade dopo aver bevuto tutto quell’alcol: ti fotte il cervello, lo sai!».
«Fatti i cazzi tuoi, stronzo».
Dal colorito scambio di battute che si stava svolgendo, Xenia intuì che si trattava di tossicodipendenti: sapeva che le “spade”, in gergo, erano le siringhe attraverso la quale ci si iniettava le droghe nel corpo.
«Ma che schifo!» osservò con disgusto la voce maschile del bagno accanto, «hai le vene del braccio marce, oh! Prova sul collo! Il collo, scema!».
Xenia, in uno stato emotivo sospeso tra l’imbarazzo e la paura, si affrettò a terminare la minzione e, senza neanche pulirsi, prese a risistemarsi per tornare di corsa dai suoi amici.
«Hai sentito?».
«Sì, Mattia» rispose Claudia. «A quanto pare, c’è qualcuno nel bagno delle donne: devono essere loro».
«Loro? Loro chi?».
«Loro».
«Oh no… e… e c-che vogliono?».
«Alla fine sono venuti a prendere anche noi, a quanto pare» dichiarò la donna, con un sospiro di rassegnazione.
«E per portarci dove?».
«Lo sai già, imbecille! Che cazzo me lo chiedi a fare?» ribatté lei stizzita, «in uno di quei loro laboratori segreti in Antartide, o in Nuovo Messico… per usarci come cavie per gli esperimenti, per impiantarci le loro fottute sonde aliene su per il culo!».
Xenia, spaventata a morte, fuggì di corsa dal bagno, diretta verso la sala principale del Cabaret Belzebù. Mentre scappava, poté sentire i due gridare a squarciagola alle sue spalle: «Non ci porterete via, extraterrestri di merda! Non ci porterete via, cazzo!».
Per quanto riguardava i complessi segreti del suo popolo, invece, Xenia Moscardelli, nome di copertura dell’agente dormiente K’q’tlaīssh Q‘ā’urrlq del pianeta ‘Ø’olu’, era invece più che sicura di ciò che sapeva: nell’area dell’attuale Nuovo Messico e dell’Antartide, da quando erano giunti sulla Terra cinquantaduemilasettecentoventiquattro anni prima della nascita di quel predicatore palestinese, quel tale Gesù di Nazareth, laboratori sperimentali non ne avevano installati. 

 
© Un racconto di Pasquale Sbrizzi - Illustrato da iosonogiuda - Editing di Paolo Perlini


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