Scritto da Caterina Bonetti-
- Illustrato da da Chiara Belmonte
Lucia
Aveva appoggiato i tre pacchetti sul tavolo.
Un presepe, un portacandela a forma di stella, un alberello di natale fatto di bottoni.
Ogni tanto si alzava e andava a controllare che tutto fosse in ordine.
«Lucia sta buona che se continui a toccarli poi si rompono».
Mara, l’educatrice, la rimproverava senza troppa convinzione.
«Ma guardati, ti sei riempita tutto il maglione di porporina! Quella poi a farla venir via dalla lana c’è da impazzire!».
Lucia era tornata al suo posto, lentamente, trascinando i piedi.
Aveva lavorato per settimane a quei regali, voleva che tutto fosse perfetto.
Grazia, l’insegnante di arte, con la sua treccia di capelli grigi, aveva detto che era molto dotata per le attività plastiche. A Lucia piaceva immergere le dita nella pasta sale, far scorrere sulla superficie il piccolo cilindro di metallo che usavano per spianarla: veniva naturale, come un gesto ripetuto mille volte. Le altre stelle erano tutte un po’ storte, le onde alla base costringevano le candele in posizioni precarie. Quella di Lucia no, la sua sembrava comprata in negozio. Aveva attaccato i lustrini uno per uno, scegliendoli meticolosamente dal barattolo. Ancora le sembrava di sentire la patina sottile della colla sulle dita.
Mancava ancora un’ora all’arrivo della sua famiglia e lei era impaziente.
«Datti pace Lucia», le ripeteva Mara, «anche se guardi cento volte dalla finestra il tempo non scorre più veloce», ma lei non l’ascoltava. Scivolava sul linoleum della sala, si sedeva, si alzava di nuovo, tornava alla finestra.
«Non ha mangiato molto a pranzo» aveva detto Pia, che serviva i pasti «quasi non ha toccato la frittata».
«Non ha voluto nemmeno fare il riposino», aveva risposto Mara, «sei emozionata vero?» le aveva chiesto accarezzandole i capelli.
A Lucia non piaceva che parlassero di lei come se non fosse presente.
«Non è vero, non sono emozionata!», ma le gambe, agitandosi, la tradivano.
Alle cinque sarebbero arrivati tutti: mamma, papà, forse anche i nonni. La capanna e l’alberello andavano a loro, la stella, quella, era per i suoi genitori. I bambini del coro si stavano già preparando sul palco. Il cappello da babbo natale le faceva prudere la fronte e ogni tanto lo sfilava per tormentarlo con le mani.
«Non ricordo la mia parte» aveva detto afferrando la manica di Mara «come faccio?». Gli occhi si erano fatti grandi, il fiato corto.
«Non preoccuparti, tu fai finta di cantare insieme agli altri».
A lei nemmeno piaceva cantare, non le piaceva vestirsi bene per le feste, non le piaceva il panettone, l’uvetta che le si infilava fra i denti, diventando sempre più viscida in bocca. Le piacevano i suoi lavoretti, mostrarli a tutti, far vedere quanto era stata brava: la migliore.
Voleva essere speciale, come il Natale.
Li aveva visti da lontano: la mamma in un cappotto blu, il più bello di tutti, il papà con la sciarpa di seta rossa, la più bella di tutte.
«Eccola la nostra Lucia!» l’abbraccio sapeva di freddo e bergamotto. «Che bel cappello che hai».
«Me l’ha dato Mara. Prude».
«Signora Martini come andiamo?». La direttrice era sbucata da chissà dove, un paio di corna da renna in testa.
«Bene, non ci lamentiamo. C’è tanto lavoro in questo periodo, non ci si ferma mai».
«Ha ragione. Come si dice? Meglio aver da lamentarsi per il troppo da fare, che non aver nulla da fare tranne che lamentarsi» e avevano riso.
Gli adulti parlavano sempre di cose così, per niente interessanti, tanto per accorciare i silenzi.
«E come si comporta questa ragazza?» aveva chiesto suo padre, riportandola finalmente dove doveva stare, al centro della loro attenzione.
«Bene» aveva risposto la direttrice «ancora fa qualche capriccio a tavola, ma Mara dice che è migliorata e che adesso mangia quasi tutto».
«Anche le verdure?» il padre sembrava contento.
Lucia non li ascoltava, fissava il tavolo dei lavoretti. Quando avrebbe potuto andarli a prendere?
Un bambino spigoloso era sbucato da dietro le gambe di sua madre.
«Lui chi è?» aveva chiesto, le parole impastate di gelosia.
«Come chi è? È Guido. Non ti ricordi?».
«No, non me lo ricordo» aveva risposto, e non voglio nemmeno ricordarmelo. «Cosa ci fa qui?».
«È qui per la festa. Siamo venuti per questo, no?»
Lui la osservava, la testa semi nascosta, gli occhi bassi.
Lucia era contenta di fargli paura, voleva che se ne andasse.
«La festa è solo per le famiglie, lo ha detto la direttrice».
«Ma Guido è parte della famiglia, Lucia, non potevamo mica lasciarlo a casa! E poi pensavamo che ti avrebbe fatto piacere».
Intanto, in fondo alla sala l’insegnante di musica stava accordando la chitarra.
«Dai andiamo a sederci» aveva detto il padre «sta per iniziare».
«No! Io con lui non mi ci siedo! La festa è solo per le famiglie!».
Lo sguardo di Lucia passava dal padre alla madre, le guance chiazzate di rosso, le dita che tormentavano il cappello.
Guido si era messo a piangere, nascondendo la testa nelle pieghe del cappotto. Sua madre l’aveva preso in braccio allontanandosi e Lucia si era messa a strillare. Nemmeno Mara sembrava riuscire a calmarla.
«Che combini Lucia?» le aveva chiesto. Lei aveva risposto fra i singhiozzi, incomprensibile.
Il padre era rimasto in piedi a guardarla preoccupato, non c’era più traccia dei sorrisi di poco prima.
«Vogliamo andare a prendere i regali?».
Mara le parlava lentamente.
Arrivati al tavolo, Lucia si era asciugata le lacrime e, con aria orgogliosa, aveva indicato al padre i suoi lavoretti.
«Che belli! Ma li hai fatti proprio tutti tu? Sono magnifici!» le aveva detto sollevandoli per poterli vedere meglio.
Lucia annuiva orgogliosa.
«Hai fatto davvero uno splendido lavoro».
«Quindi per chi sono? Il presepe mi piace molto, se va bene lo terrei tutto per me» la esortava il padre, .
Lucia annuiva, tossendo via il pianto.
«La stella è una cosa da signore, cosa dici?»
La stella era per la mamma, questo era certo. Ma dov’era andata? Lucia la cercava nella sala con lo sguardo, ma non riusciva a trovarla.
«E l’alberello? L’alberello lo diamo a Guido?».
«No! I regali sono solo per la famiglia!». Era bastato solo il nome per far riprendere gli strilli.
Tutta la sala li osservava in silenzio.
«Lo lascio qui, va bene? Decidi tu a chi darlo», ma Lucia non ascoltava più.
«Era un giorno speciale, tutto per noi» ripeteva scuotendo la testa «un giorno in famiglia».
«Lo vuoi tenere tu l’alberello?» le aveva chiesto Mara porgendoglielo, ma lei l’aveva buttato a terra. I bottoni erano caduti sul fondo del pacchetto, lasciando l’albero spezzato e spoglio.
«Non credo si calmerà», aveva detto allora Mara, «forse è meglio lasciarla un po’ da sola, magari la porto a riposare».
Il padre era immobile, i regali in mano, lo sguardo vuoto, mentre così Mara aveva aggiunto:
«Non è colpa di nessuno, certi giorni va così» mentre sbloccava il fermo della sedia a rotelle.
«Mi dispiace per Guido, si sarà spaventato. Ditegli che non è colpa sua, che lei non lo fa apposta».
«Non so se capirà», le aveva risposto lui.
«Capirà, lasciategli tempo. Buon Natale signor Martini».
Mara aveva incominciato a spingere la carrozzina, il vociare stava riprendendo nella sala.
«Buon Natale a lei Mara, grazie di tutto».
«Siamo qui per questo».
Il coro aveva incominciato a intonare Venite fedeli, Lucia era immobile, persa altrove, gli occhi rossi, e non lo sentiva. Lui, invece, rimasto solo, aveva raccolto l’alberello e l’aveva infilato nella tasca del cappotto. Era bastato quel gesto per riportalo a molti anni prima, quando – allo stesso modo – le aveva nascosto i frammenti di una statuetta del presepe rotta per sbaglio la Vigilia di Natale. Era stata lei, sua madre, ad asciugargli le lacrime quando nella notte il senso di colpa lo aveva svegliato. Allora era diverso, lei era ancora lì con lui, non se n’era ancora andata altrove, lasciando alle spalle un ricordo dopo l’altro, un viso dopo l’altro, un Natale dopo l’altro.
«Lo riparo a casa, non è nulla, e poi te lo riporto, promesso. Tutto si aggiusta, vedrai, tutto quanto» aveva mormorato fra sé «Buon Natale mamma».
© Un racconto di Caterina Bonetti - Illustrato da Chiara Belmonte - Editing di Chiara Bianchi
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