Scritto da Davide D'Ambrogio-
- Illustrato da da Danila Riccio
L'esecuzione pubblica di Flavio
L'uomo con la maschera mi concede un ultimo desiderio. Non voglio niente, gli dico, ma mi conosce bene, così accende la sigaretta e me la infila tra le labbra. Dolce fuoco nei polmoni.
L'uomo è minuto quanto un bambino, ma deforme; un mostro ricurvo che non ha nulla di umano, se non la voce profonda, tonante. In qualche modo arriva ad adagiarmi il cappio sulle spalle, come un drappo funebre. Il legno del patibolo cigola sotto i suoi stivali, poi si ferma di fronte a me.
«Sai perché sei qui?», dice il boia, in un’eco estesa come il mondo.
«Sì, lo so», rispondo.
«Ed è giusto?».
Il mostro alza la voce, la terra trema.
«È giusto», gli dico.
Vorrei sputare catarro e lacrime, dalla bocca mi esce solo il fumo. È giusto, ripeto.
«Avete sentito tutti? È giusto! Oggi si fa la giustizia!», urla il boia verso la platea, ma la piazza è vuota. Siamo solo io e lui.
Chino il capo. Volevo soltanto piacere a tutti, confesso in lacrime.
«E invece guardati, ora fai schifo persino a te stesso, Flavio. Ma tranquillo, non commetterai più certe atrocità. Oggi porremo fine alla tua arroganza una volta per tutte».
Sembra che non ci sia altra strada per me, solo la luce in fondo al tunnel, accesa come quella dei riflettori. Allora fa' in fretta, nano di merda, penso tra me e me stringendo i denti.
«Ma non capisci che le tue parole feriscono gli altri?».
Non ho detto niente, gli rispondo.
«Però io l'ho sentito, Flavio. Mi hai chiamato nano di merda. Non l'ho sognato».
Il boia mi gira intorno, con una lama mi strappa due unghie.
«Devi stare attento. Quelli come te non possono permettersi certi scivoloni, perché basta che i piedi si stacchino un attimo da terra…». Lo sgabello si ribalta sotto di me. «...e non respiri più».
La corda si tende. Apnea. Sto morendo. Sii forte, Flavio, è una vita che fumi. Dovresti conoscerla questa sensazione, dico a me stesso, e la gola è un nodo stretto da cui non esce nulla. La testa ribolle, sangue caldo che si addensa. Poi il boia mi restituisce l’appoggio e ritrovo il respiro.
«Hai capito adesso, Flavio Insinna?».
Non pronunciare quel nome, lo detesto.
Boccheggio tra sangue e muco, poi rispondo di sì, ho capito, nano di merda.
«E sentiamo, cos'è che hai capito?».
Il boia accende un'altra sigaretta e se la gira tra le dita. Che ho sbagliato, gli dico, ma non trovo la forza di guardarlo negli occhi.
«Sbagliato cosa?».
A parlare. Ho sbagliato a dire nana di merda in televisione, gli rispondo tra le lacrime.
«Flavio, ma allora non hai capito. Non c'è niente che hai sbagliato». Il mostro ride, ha la voce gentile. «Semplicemente tu sei sbagliato!».
Il riso sfocia in rabbia, il boia mi spegne la sigaretta sul collo, fino a esporre la carne viva.
Io non sono sbagliato, sono solo una persona coi suoi difetti, urlo ancora contro il cielo.
«E se non sei sbagliato, perché ti sei consegnato alla legge?».
Perché sono un verme, penso.
«Bravo».
Perché mi disprezzo.
«Continua».
E merito di bruciare. Ma voglio cambiare, gli dico.
«Cambiare? Flavio, quello che invochi a gran voce è un processo diverso dal cambiamento. È la totale riprogrammazione del cervello e della persona. Ma a quel punto diventeresti qualcun altro».
Incrocio il suo sguardo: occhi freddi e familiari, l'unica parte del volto che filtra attraverso la maschera. Dovrei tacere, accettare il destino e basta, eppure, disperato, gli chiedo com'è che si riprogramma il cervello di un uomo. Il boia mi ride in faccia.
«La riprogrammazione è un processo lungo e doloroso, fatto di rinunce dilanianti. Flavio, tu cosa sei disposto a sacrificare?».
Tutto, gli dico, ormai ridotto a un pupazzo inerte.
«Vediamo. Quanti asterischi e schwa sei disposto a usare in una frase?».
Che cosa?
«Hai capito bene».
Tutti quelli che servono, rispondo senza esitazione.
«E in televisione farai mai riferimenti alle razze?».
No, mai.
«Quante ne esistono?».
Una, perché siamo tutti uguali, tutti fratelli.
Il mostro tira il cappio, mi stringe la gola.
«Intendevi “fratellə”, giusto?».
Sì, ho sbagliato. Chiedo scusa a tutte e tutti.
«Anche i froci sono uguali agli altri?».
Tutti uguali, ti prego fermati, sussurro con la voce che è un filo, come la corda che si tende.
«Fa parte del processo, Flavio, devo chiederti di non interromperlo. E farai ancora body shaming?».
No, non lo farò, rispondo di nuovo, come se accettassi le cento clausole di un contratto col demonio.
«Ma dire a una persona che è una nana di merda è body shaming. È parte di te, della tua natura perversa».
Sacrificherò la mia natura, sacrifico tutto, non penserò più certe cose, gli dico, mentre scendo senza fiato al più annichilente dei compromessi. Allora il boia allenta la tensione sul cappio.
«Ottimo lavoro, lo vedi? Devi solo stare attento alle cose che dici. Anche un mostro può diventare buono se indossa la maschera di un santo».
I suoi occhi, sottili feritoie dell’inferno, si inchiodano nei miei. Poi di colpo si addolciscono.
«Stai andando benissimo, sei il più bravo di tutti».
Tutti chi, chiedo.
«Gli altri che abbiamo sacrificato. Ricordi?».
Non capisco, non ricordo.
«Come no? Flavio Timido, Flavio Irascibile, Flavio Pigro, Flavio che desiderava diventare Papà. Morti, si sono spenti per sempre nel nome di un bene superiore: piacere a tutti, a tutti i costi. E alla fine siamo rimasti solo io e te: la Persona e il Personaggio. Ma siamo due facce ormai incompatibili della stessa medaglia, lo capisci?».
Il fumo di sigaretta mi tappa la bocca, non passa niente.
«Resta un ultimo sacrificio da compiere, perché non c'è più spazio per tutti e due. Oggi dobbiamo uccidere la Persona per far rivivere il Personaggio. Solo allora la riprogrammazione sarà completa».
Piango. Piango disperato per il sacrificio impossibile che sono chiamato a compiere. Non è così che doveva essere.
«Dunque come vuoi morire? Un colpo secco al cuore? O preferisci toglierti il respiro con un salto?».
Il mostro mi lascia da solo col dolore. Il fumo tra le labbra si mischia alle preghiere, ma non c'è più nulla da sperare. Sii forte, Flavio.
A dire il vero, gli dico, voglio andarmene vedendo le luci ancora un'ultima volta.
Il boia annuisce, dopodiché fa un passo indietro e scende dal patibolo. Il mozzicone ardente mi cade dalle labbra e l'impalcatura in legno diventa presto un enorme carro di fuoco.
Non fa più freddo. Sento ora il calore, le grida, le luci accecanti come riflettori. Il mostro mi guarda per l'ultima volta, come si fa con le belle trasmissioni ormai prossime alla fine. Piange e ride nello stesso momento.
«Flavio, sai perché indosso la maschera?».
Non rispondo, ormai le labbra sono un unico lembo di pelle fusa.
«È l'unico modo per piacere a tutti».
Il boia si scopre il volto e con un dito sul labbro mi fa segno di mantenere il segreto. Dalle fiamme scorgo i suoi lineamenti contorti: una sagoma familiare che un tempo ho persino amato, ma per cui oggi non provo altro che rancore, lo stesso che nutro per me stesso, perché il mostro sono io. Sono sempre stato io. Flavio, perdonami, perdona te stesso. Concediti almeno quest'ultimo desiderio.
Gli occhi si fondono e l'ultima immagine che vedono è il mostro che sorride, illuminato dalle fiamme, come riflettori che si accendono di nuovo per non spegnersi mai più.
© Un racconto di Davide D'Ambrogio - Illustrato da Danila Riccio - Editing di Paolo Perlini
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