La cena del venerdì | Racconti Indigeribili

La cena del venerdì | Racconti Indigeribili

Scritto da Stefan Valeanu-
- Illustrato da da Elleart


La cena del venerdì 

Il lavandino perde.
Taaac
E il tempo non passa; il tempo immobile dell’attesa.
Fumo accanto alla finestra e la tv non mi lascia in pace, vuole farmi comprare uno stira camice a vapore, farmi sentire insicura, prendersi le mie rughe, la pancia, le caviglie gonfie. La tv non mi ascolta; puttana.
«Bel destino il nostro… prendiamo polvere aspettando che Corrado ci spenga».
Quante giornate buttate così.
L’ansia mi ancóra alla sedia; fisso la tovaglia cerata: limoni, cespi d’uva e arance; annuso l’odore stantio di fumo e frittura spalmato sulle pareti ingiallite.
Taaac.
In quale bar si sarà fermato?
Apro il frigo e non ci trovo nulla: una cipolla e del burro rancido. Ho ancora tempo per uscire a prendere qualcosa; per evitare che si arrabbi, ma di soldi non me ne ha dati altri.
Torna a far male il naso, lì dove mi ha… dove sono caduta. Tocco la gobba, ancora gonfia, viola.
Taaac.
Il piccolo è in camera che gioca. Lo spio dal corridoio. È il Dio della città pelosa; spinge una decappottabile blu nella via principale del tappeto; chissà che mondo gli vortica dentro. Si volta e mi nascondo. Più cresce, più il suo sguardo mi ferisce.
Indosso il pastrano sopra il pigiama, allaccio gli stivali, avvolgo la sciarpa e fisso lo specchio sporco; recupero un pezzo di giornale e del detergente; tolgo tutti gli aloni, attenta a non guardarmi.
Provo a dimenticarmi.
«Amore, esco a fare la spesa».
Taaac.
La luce del neon sfarfalla mentre mi faccio strada fra le cianfrusaglie nel garage: fanali, attrezzi arrugginiti, pompe, pneumatici, volanti, calendari, bici rotte. Oggetti a cui lui vuole bene; che accarezza.
Dentro un mobiletto nasconde un album di foto chiuso da un nastro azzurro, e seicento euro in banconote. Sono le due cose a cui tiene di più: i soldi e l’archivio delle sue conquiste. Tutte le sue uccelline; alcune pagine le ho strappate prima che lo nascondesse; tutte quelle dove lo vedevo felice.
Ho strappato pure la mia: 27.01.1989. Jesolo. Paola. Culo moscio ma che grinta.
Recupero dal malloppo una banconota da cinquanta euro. Una sola, faccio sempre così: ne tolgo una, solo quando è ubriaco; giorni dopo fa i conti, con gli occhi in fiamme, i pugni chiusi e l’odio che gli sgorga dalla pelle, se ne accorge ma è tardi. E io, come un tubero, mi nutro di quel sentimento.
Fiorisco.
Vivo.
Le macchine sfrecciano sulla provinciale sollevandomi il pastrano. Il gelo sugli stinchi dà sollievo dove i lividi pulsano.
Cammino stringendo la banconota nella mano, come un amuleto. Non ho mai avuto soldi miei ora che ci penso bene.
Passo dal tabaccaio sotto i portici.
«6 euro e 20. Paola rimane ancora il conto––».
«Non è passato Corrado?».
«Ora basta però. Mi prendo questi come anticipo e––».
«No!», gli strappo di mano la banconota, «Sergio…devo comprare gli antibiotici per lui. Sta molto male».
La tabaccaia guarda il pasticcio che ho in faccia e dalla borsetta tira fuori una sigaretta.
«Vattene, prima che me ne penta».
«Tornerò domattina» le dico mentre mi risistemo la sciarpa. «Io o mio marito. Domattina: lo prometto».
Esco. La testa gira. Qualche passo nella piazza e devo appoggiarmi a un gelso. Il cielo grigio, i rami spogli, il campanile silenzioso: mi fa tutto così paura.
Attraverso inciampando nei sampietrini per raggiungere l’alimentari. La serranda è chiusa per metà e la gobba di Pina spunta da dietro la cassa; sta riponendo sullo scaffale delle mele cadute per terra, lucidandole con il grembiule e girandole dal lato buono.
«Panini secchi e delle ossa ti sono rimasti?».
«Ai polli e ai conigli ci puoi dare pure i torsoli marci, lì…» indica un sacco sul bancone «quelle non le riesco a vendere. Te le lascio», ci pensa un attimo, «per un euro».
Vecchiaccia maledetta.
«Molte grazie. Ma di pane nulla? Le ossa son per Sergio, gli faccio un brodo. Ha un po’ di raffreddore».
Sparisce nel retro e torna con dei piccoli teschi d’uccello e una mantovana dura come un mattone.
«Tordi. Ci ho fatto i capponi stamattina. Nel brodo andranno bene. Diventano molli e glieli puoi far mangiare, che si tira un po' su».
Infilo tutto nel sacco e cerco i soldi nelle tasche.
«Ferma», mi porge una borsa, «prendi». Dentro tre camicie d’uomo con il colletto liso.
«Le voglio domattina e che siano perfette! Per le mele e i capponi va a fare una preghiera per la salvezza della mia anima».
La ringrazio e corro fuori.
Troia. Avara.
I suoi occhi mi seguono fino al portale della chiesa; aspetto nell’atrio, nascosta dietro un drappeggio, che il campanile rintocchi le venti; esco gettando nel primo bidone le mele scurite.
Ho ancora un paio d’ore prima che Corrado rientri. Un uomo mi accende la sigaretta e torna a sedersi sotto l’insegna del Bet for Fun.
«Paola, non ti abbiamo vista stamattina».
«Avevo da fare. Me ne dai quattro ‘miliardario’ e dieci ‘sette e mezzo’».
Eccoli qui, tra le mani: il mio riscatto, il mio potere, la mia fortuna, il mio destino, la mia felicità, la mia serenità, il mio presente, il mio cuore, il mio io, il mio,
Io.
Prendo e gratto. Gratto ogni millimetro di pellicola argentata. La sento tra i polpastrelli e gratto. Il primo niente. Lo strappo. Gratto il secondo. Leggo i numeri. Gratto ancora. Pulisco ogni angolo. Nulla. Il terzo: 27 gratto, 38 gratto, 40, 11 gratto, 36, 8, 7.
Ho vinto!
«Dammene altri tre. Quelli lì».
Gratto e strappo. Gratto e strappo. Ho bisogno di un'altra sigaretta. Passo a quelli piccoli. Gratto. Gratto. Ne gratto altri otto. Ho vinto dieci euro.
«Un ultimo miliardario. Ma fallo scegliere a me» che bella parola scegliere.  «Voglio quello lì in alto».
Lo voglio. Lo voglio. Lo voglio.
Torno allo sgabello e gratto.
E poi tutto finisce.
«Andata male, stasera» mi dice il titolare.
Cammino verso casa. Quante cose avrei fatto con una bella vincita: riempire la dispensa di cibo, regalare a Sergio quelle scarpe da calcio blu, portare Corrado a mangiare un kebab, pagare la bolletta di settembre.
Maledetta sfortuna.
Maledetta vita che mi da solo teschi di uccelli.
La chiave non gira; la porta è già aperta.
«Dove cazzo eri finita? Che si mangia?»
Taaac.   

 
© Un racconto di Stefan Valeanu - Illustrato da Elleart - Editing di Chiara Bianchi


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