Mon ami | Racconti Indigeribili

Mon ami | Racconti Indigeribili

Scritto da Pierfrancesco Trocchi-
- Illustrato da da Claudia Marrone


Mon ami

Ogni mattino la persona che mi guardava mangiare i miei makroudh al café di Rachid mi diceva prenditi una pausa e resta qui per sempre. Ma a me non importava, non mi ero mai fermato un istante da quando il mondo aveva iniziato a precipitare, ossia da quando avevo coscienza. Il mondo precipita in eterno, perché la nostra dimensione dell'eterno non è altro che la forbice della nostra esistenza.

Ero a Nabeul da un anno e mezzo e il richiamo alla preghiera del muezzin mi era diventato familiare più di molti film americani e in un tempo molto minore. Saabi veniva ogni giorno al café, sapendo che mi avrebbe incontrato, sempre alla stessa ora. Iniziava sempre allo stesso modo, e sempre continuava chiedendomi se sarei tornato in Italia. Non lo so, Saabi, alla fine siamo condannati al ritorno, conosci Omero? No, diceva Saabi, è un calciatore? No, Saabi, è più che altro una presenza arbitraria, invisibile, regolatrice, tipo Dio. Dio non aspetta altro che il nostro ritorno, disse Saabi alzando ritualmente l'indice destro al cielo. Hai ragione, Saabi, ma è ancora presto per tornare da lui, ora me ne torno a casa. Salām.

Avevo preso alloggio in un appartamento scarcassato come i gatti che trovavo per strada, eppure mi trovavo bene come mai prima, forse perché non dovevo dimostrare nulla a nessuno. Sullo stipite avevo una mano di Fatima, la baciavo ogni volta prima di entrare, all’usanza ebrea, del resto quella parte della Tunisia è una soluzione a ogni conflitto, a quanto pare. Spesso mi abbandonavo sul divano a imprecare dolcemente, accarezzato e infastidito dalla corrente del ventilatore. Rileggevo ciò che avevo scritto al mattino e mi addormentavo per mezz'ora, per poi risvegliarmi e accendere una TV bruciata che rendeva blu ed effervescente l’aria di tutta la stanza. Infine, mi facevo una doccia, fredda, e mi lasciavo asciugare sul terrazzo donando il mio sguardo alla distesa di palme e fumando una sigaretta. Non conoscevo molte persone, però mi sentivo a casa. Perché tutti vogliono venire da voi in Italia? Qui si sta benissimo, mi aveva detto una volta Mehdi, il tassista. Mehdi, che ti devo dire, avevi ragione, come quando sostenevi che le donne vogliono sposarsi con gli eroi, e mai con i poeti che li cantano.

La sera mangiavo preferibilmente pesce, poi passavo al solito bar per fumare il narghilè e discutere in un francese scannato i risultati del campionato tunisino, gli ultimi provvedimenti del governo o l'imminenza di qualche festa musulmana. Le serate passavano come i sogni portati da giugno e mi chiedevo perché mai ci fossero così tante persone infelici a questo mondo. Il mio editore mi chiamava una volta a settimana al telefono del café per sapere come stesse procedendo la stesura del mio romanzo. Bene, spiegavo, dovresti venire qui anche tu. No, grazie, ho tutta la mia famiglia qui. Prendi anche loro e mandali al mare, Milano fa schifo, dicevo. Tu pensa a scrivere, ma sappi che anche qui c'è spazio per i pensieri, si difendeva piccato Stefano. A Milano anche i pensieri costano, risposi, e i soldi sono un mezzo e io non voglio più mezzi, solo sensazioni. Sarò diventato un hippie del cazzo, che ne so, ma è così.

La notte passava veloce fino alle quattro, e lenta fino alle sei e mezza. Mangiavo datteri e scrivevo un po’, in mezzo a un paio di sigarette. Adoravo annoiarmi e il romanzo procedeva secondo desiderio. Ogni capitolo era bilanciato come l’avevo immaginato, ogni personaggio vivo come fosse lì con me, ogni storia giusta di un'esattezza araba. Messo l'ultimo punto, chiamai Stefano. Prenotami un volo, domani torno. Che hai combinato, mi chiese. Il romanzo è pronto, è la decantazione di tutto me stesso. A domani, ti vengo a prendere in aeroporto, e Stefano mi salutò con malcelato entusiasmo.

Preparai ogni cosa, le mie quattro camicie e miei tre pantaloni, le ciabatte, una stecca di sigarette di contrabbando, un paio di kg di thè e tre etti di zafferano, due paia di scarpe, una ventina di libri – i restanti li donai alla biblioteca dell'università –, gli occhiali di riserva e la mano di Fatima. Andai da Saabi, lo abbracciai e gli dissi che me ne sarei andato. Tutti vanno, lo dice anche Mehdi, la Tunisia è troppo bella per rimanerci. È vero, Saabi, ma ci rivedremo, inshallah.

Milano faceva orrore come al solito e il suo aeroporto era pieno di facce sbagliate. Stefano mi accolse con una robusta stretta di mano e sorrise con discrezione, poi mi portò al ristorante. A metà del pranzo non resistette e mi chiese di visionare il manoscritto. Gli consegnai una risma di fogli sottili e meravigliosamente panna, il colore delle copertine Gallimard, per intenderci. Lo aprì e lo sfogliò, prima incuriosito, poi con crescente nervosismo, lo rigirò tra le mani e mi guardò con gli occhi strappati. Qui non c'è scritto niente, è uno scherzo, chiese. Come nulla? Nulla, cazzo, nulla di nulla, ma sei coglione? Stefano, moderiamo i termini, c'est pas grave. Vaffanculo te e il tuo francese, è grave sì, a stare con i marocchini sei diventato marocchino? Marocchino no, tunisino al massimo, e poi cosa vuol dire, domandai versando l'ultima goccia di Nero d'Avola. Io ti licenzio e ti denuncio, porco d’un tunisino, ti ho mantenuto tutti questi mesi, mi fai andare in rovina, tuonò Stefano. Guarda bene, dissi, qualcosa c'è scritto. E dove, dove? Nell'ultima pagina. «È il dubbio che ci tiene in vita», lesse. E che cazzo vuol dire? Ti pare un romanzo questo? No, risposi, ma è una frase bellissima che tu non puoi capire. L’unico dubbio che ho nella mia vita è se tu sia un coglione o un ladro, sputò.

Non recepii l’insulto. Piuttosto, mi risultò indecente la presunzione di compiutezza che aveva guidato Stefano nell’ignorare quella frase bellissima: C’est le doute qui nous fait vivre. Me l’aveva mormorata Saabi, una notte, guardando il mare. Mi alzai e gli conficcai il coltello da carne tra il mento e il pomo d’Adamo. Mentre si dimenava sempre più fiocamente, lo guardai dicendogli: tranquillo, eri già morto da un pezzo.

Non feci in tempo a pagare che fui bloccato da un paio di uomini forzuti che mi dissero te la passerai male per molto tempo, con tutti questi testimoni. Risposi che ero piuttosto contento, infine, perché nel carcere di un paese che ci capisce poco di vita e di sentimenti avrei trovato molte più storie di quante ne avrei incontrate fuori. E molti più tunisini. E non potevi semplicemente tornartene in Tunisia, qualcuno mi chiese poi. No, perché nei sogni non si torna, è un sacrilegio.

Entrato in cella, chiesi a Saabi cosa ci facesse lì. Non potevo lasciarti da solo, mon ami. Grazie, Saabi, ora dormiamo un po’. Prima gli dissi: sarò vivo fino a quando avrò il dubbio di avere sognato tutto questo, mon ami. Salām ‘alaykum, mi rispose. ‘Alaykum salām, e mi coricai sulla mia vita come su un letto di fiori d’arancio.

 
© Un racconto di Pierfrancesco Trocchi - Illustrato da Claudia Marrone - Editing di Chiara Bianchi


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