Scritto da Jacopo Zonca
- Illustrato da Dario Licata -
Fiaba di Ray
C’era una volta una ragazza dai capelli biondi, gli occhi chiari e il viso dolce. Si chiamava Maria.
Era iscritta all’università, studiava antropologia e faceva l’istruttrice in una grande palestra. Guadagnava poco ma era felice.
Nella grande palestra gli altri istruttori erano invidiosi perché molte persone preferivano i corsi di Maria ai loro. Al contrario dei colleghi, lei era carina con tutti. Magri o grassi, belli o brutti, per lei non c’era differenza. Chiunque venisse in palestra aveva il diritto di divertirsi, senza pensare allo specchio.
Un giorno, appena arrivata al lavoro, i colleghi le dissero che il padrone le doveva parlare. Intimorita, si incamminò con il borsone ancora sulle spalle, oltrepassò la sala pesi e raggiunse il piccolo ufficio. Il capo era dietro la scrivania, marmoreo e con i capelli bruni. Dietro di lui, una selva di coppe e medaglie di competizioni vinte.
“Maria, sei una ladra. Hai rubato dalla cassetta dei contanti. Vattene.”
Voleva ribattere, sapeva che era una lurida bugia, ma era talmente offesa che non riuscì a rispondere. I colleghi l’avevano incastrata.
Sconvolta, cercò lavoro in altre palestre, ma la voce si era sparsa: la ragazza dai capelli biondi, gli occhi chiari e il viso dolce, era una ladra. Nessuno credette che in realtà l’avessero cacciata per invidia.
Maria cadde nel gorgo della più profonda disperazione. Si chiuse nel suo monolocale per giorni a piangere.
Con fatica ricominciò ad andare a lezione, ma presto si ritrovò con pochi euro. I suoi genitori non potevano darle una mano, erano poveri. La grande città della nebbia in cui studiava era troppo costosa. Lì, la vita era molto più difficile rispetto alla piccola città del sole dove era nata.
Un mattino, uscita dalla facoltà, in mezzo agli annunci di stanze in affitto e lezioni private, trovò appiccicato alla bacheca un volantino. Ritraeva una sagoma di un corpo femminile su sfondo bianco. Sotto l’immagine appena accennata erano scritte le istruzioni su come accedere alla piattaforma. Era semplice, si potevano caricare le proprie fotografie e si aspettava che qualcuno le comprasse.
Nel pomeriggio, dopo lo studio, Maria pubblicò sulla piattaforma alcune foto dei suoi piedi. Erano perfetti, curatissimi. Non si impegnò neppure, scattò velocemente, giusto per spegnere la scintilla di curiosità che si era accesa in lei quella mattina. Nel giro di un’ora tutte le foto vennero acquistate e guadagnò subito quello che nella grande palestra le avrebbero dato per due settimane.
Uscì, andò a fare la spesa nel supermercato sotto casa e pensò. Mentre comprava lo yogurt, l’insalata e il riso, qualcosa la emozionava, la intrigava.
Il giorno dopo andò in un negozio di giocattoli e si procurò una maschera veneziana, prese anche un nuovo cellulare e addobbò la sua cameretta coprendo le pareti con teli rossi.
Iniziò così la sua avventura.
A ogni nuova foto indossava una maschera diversa: una volta da clown, una volta da simpatico coniglio, un’altra volta un casco integrale con la visiera a specchio. Doveva avere sempre il volto coperto, questa era la sua unica regola.
Le immagini la ritraevano con costumi striminziti. Poi, quando le vendite diventarono maggiori, si spogliò completamente. Un pomeriggio impostò l’autoscatto, aprì le gambe davanti all’obiettivo e aspettò che l’immagine si imprimesse sul chip.
Le piaceva fotografarsi in diverse posizioni, mostrarsi innocente e cattiva allo stesso tempo. Presto si affibbiò anche un nome d’arte. Per tutti i clienti virtuali, divenne “Ray”.
Giocare con oggetti di plastica e accarezzare il suo corpo morbido e perfetto, all’inizio era strano. Maria si domandava cosa stesse facendo, ma l’adrenalina che ne derivava riusciva a dissipare ogni dubbio. Aveva cominciato per i soldi, ma la verità è che dopo un po’, quel gioco iniziò a piacerle. La consapevolezza di essere il desiderio e la fantasia di centinaia di persone la elettrizzava e riusciva ad anestetizzare i suoi disagi. Era inebriante.
In sei mesi guadagnò abbastanza da poter pensare di comprarsi un nuovo appartamento.
I ricchi si fecero avanti e Ray cominciò a fare video con richieste su misura. Alcuni volevano le sue calze o le sue mutandine usate. Altri invece desideravano che si riprendesse mentre faceva la pipì dentro un vaso, per avere così la conferma che il materiale che acquistavano fosse autentico.
Ma dopo quasi un anno, cominciò a sentirsi male. Essere adorata dai clienti non fu più divertente, anzi divenne un peso. Prima di ogni scatto o video, Maria soffriva e vomitava dall’ansia.
Decise di smettere. I soldi erano tanti, ma non poteva continuare. Sarebbe tornata alla vita di prima e avrebbe finito l’università.
SteX34 era il cliente più facoltoso, il più affezionato e dolce.
“Ti vorrei vedere, Ray” le scrisse in un messaggio.
“Non faccio incontri” rispose lei.
“Io ti darei qualunque cosa. Di me ti puoi fidare”
Le diede appuntamento in un piccolo capannone appena fuori città. Maria scese dall’autobus, arrivò davanti al magazzino e si infilò il casco a specchio.
Trovò il chiavistello dentro a un grosso tubo di acciaio vicino al portone ed entrò. Premette l’interruttore: grandi lampade sul soffitto illuminarono l’intero spazio vuoto di una potente luce bianca.
Una voce da un altoparlante le chiese di avvicinarsi. Era un bel suono, caldo. In un attimo allentò la paura che le stringeva il petto. Sotto un piccolo faro c’era un tappeto sottile e azzurro. Ray sospirò. Sarebbe stato l’ultimo incontro, avrebbe preso tanti soldi e poi il gioco sarebbe finito.
Si abbassò la zip della felpa pronta a spogliarsi. Intuì che il cliente desiderava guardare da lontano.
Invece le furono subito addosso e la immobilizzarono. I tizi indossavano passamontagna neri come i loro vestiti. Le sfilarono il casco e la picchiarono, poi la legarono a una sedia di ferro. Erano in due, uno riprendeva con una piccola telecamera.
Continuarono a pestarla, le strapparono i vestiti e le sfregiarono le gambe con i coltelli. Le bloccarono la mano sinistra e le tagliarono via due dita con un paio di forbici da siepe… Poi le puntarono la pistola in faccia. I capelli biondi impiastricciati di sangue e muco le coprivano il volto. Non era più il viso dolce di Maria. Prima di morire immaginò di chiedere perdono ai suoi genitori. Uno scoppio…
… E svenni nel momento in cui la polizia aprì il portone.
Ero convinta di essere morta, ma mi risvegliai in ospedale. Avevo le labbra spaccate, i tagli ancora freschi. Ci misi due settimane per ricominciare a parlare.
“Che ti hanno fatto piccolina…” diceva sempre l’infermiera.
La polizia mi raccontò che un tizio molto ricco riusciva a nascondersi dietro un’identità falsa e pagava dei balordi per i suoi giochi. Si eccitava a far riprendere le ragazze mentre venivano torturate. Riuscirono a prendere i torturatori, ma mai quel bastardo.
Ti facevo più furbo, invece mi è bastato entrare nel giro degli snuff per trovarti. Dopo quello che mi hai fatto ho perso ogni cosa, anche il senso del dolore.
Nelle chat eri ancora SteX34. Che cos’è un nome d’arte? Tu vuoi essere riconosciuto, vero? Ti piace sentirti potente e impunito. È bastato un messaggio, una parola dolce…Ed eccoti qui: indifeso, nudo come un verme e legato a un letto di motel.
Zitto. Tanto non ti tolgo il nastro da quella bocca di merda. Puoi mugugnare quanto vuoi.
Sono sempre io, la tua Ray, senza maschera. Sono bella anche con le cicatrici. Sono bella anche se faccio il mestiere da troppo tempo, ormai.
Tranquillo, sono brava a fare le iniezioni, mi hanno insegnato in ospedale.
Vuoi sapere cosa c’è dentro la siringa? Hai presente quella cosa che fa andare le macchine?
Benzina, esatto!
Che collo tenero che hai. Sì, la pelle dei vecchi è più morbida. Chiudi gli occhi e stai fermo, altrimenti ti farò davvero male e sarò più lenta. Tranquillo, all’inizio l’ago pizzica sempre.
Adesso muori.
© Un racconto di Jacopo Zonca - Illustrato da Dario Licata - Editing di Chiara Bianchi
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