Scritto da Marica Gagliardi
- Illustrato da Antonella Depalma -
La piscina
Un polso spezzato spiaccicato sull’asfalto come una gelatina sotto al sole. Dottore, è di questo che parlo. Lei lo ha mai visto uno spettacolo del genere? E non mi guardi in quel modo, per chi mi ha preso? Semplicemente, non mi si leva dalla testa. È da settimane ormai che passo le giornate in attesa che quell’immagine mi compaia davanti agli occhi nei momenti più impensabili. La prima volta è arrivata all’improvviso, poi ho preso ad aspettarla. Le spiego: giovedì ho visto Sara. Sì, abbiamo ripreso a scriverci. È tornata dalla Francia e avevo voglia di sapere cosa avesse combinato in quei due mesi in mezzo ai contadini. Non mi era mancata ma ero curioso, volevo capire chi fosse diventata. Si è presentata senza un filo di trucco, un vestitino verde a fiori e le guance bruciate dal sole. Credo se la sia passata bene in campagna. Nei due anni che siamo stati insieme, glielo assicuro, non era così, era sempre triste, non voleva fare mai niente. È più bella adesso. Doveva forse allontanarsi da me? Ma insomma, l’altra notte ero sopra di lei e la guardavo godere, ed eccolo, quel polso arroventato dall’asfalto davanti alla banca. Non ce l’ho fatta, mi sono dovuto alzare, ho finto di avere un malore e mi sono chiuso in bagno. Un po’ me lo sentivo, sa? Non ci avevo pensato per tutto il giorno, tranne che per un attimo in ascensore, prima di uscire di casa e andare all’appuntamento. Mi ero detto oggi non l’ho ancora visto. Strano. Capisce? Lo stavo aspettando. L’altra mattina mi sono fermato in un bar che serve la colazione all’inglese, volevo iniziare la giornata in modo diverso, avevo passato la notte a fissare il soffitto. Ho ordinato del bacon e delle uova strapazzate e quando il piatto è arrivato, era lì, fumante davanti ai miei occhi, quel maledetto polso. Perché adesso? Perché dopo ventun anni quell’immagine disgustosa ha deciso di venire a tormentarmi? E no, non me la bevo la storia dell’auto sabotaggio. Io ci volevo scopare con Sara! Quella roba me la volevo mangiare, non desideravo altro! E poi comunque l’azzurro non sta bene con il sangue. Intendo dire che niente di quello che sta accadendo ha senso. Senta, le dà fastidio se mi alzo in piedi? Sono un po’ agitato. La scorsa settimana ho comprato una giacca di lino. È di un beige chiaro, come quella che aveva nonno alla laurea di Enrico. Era un signore distinto lui, sapeva sempre cosa dire. Ad essere sincero, non lo sopportavo per questo. Che vita ha avuto questa gente? Mio padre, mio nonno, i miei zii. Voglio dire, le loro esistenze sembrano confezionate, capisce? Le partite a carte, i commenti sulle cameriere, i baci sulle spalle delle mogli quando cucinano qualcosa di buono. L’ho baciata anche io una volta, la spalla di Sara. Aveva fatto una carbonara niente male e mi sono ritrovato con le labbra poggiate sul dorso della sua spalla, senza pensarci. Ma lei non poteva essere mia moglie, lo capisce? La verità è che sto dormendo poco e male. Quella mattina mio padre era venuto a prendermi prima a scuola, dovevo andare dal dentista per l’apparecchio, l’ho portato per anni. A volte sogno quell’angolo di strada, il sole è accecante come allora, ma capisco che è un sogno e non un ricordo perché mio padre mi tiene per mano. Aveva anche lui una camicia azzurra quel giorno, ma nel sogno, quando si gira a guardarmi, ha la mia faccia. O forse sono io e basta. Lei crede nel destino? La mia famiglia è cattolica, ma nessuno crede davvero. Se le dicessi che ho fatto un sogno in cui c’era anche lei? Sì, proprio lei, dottore. Eravamo in una piscina al chiuso, c’era gente in accappatoio che chiacchierava, mentre altri in costume si aggiravano per la sala. Tutti portavano gli occhialini, noi due invece eravamo completamente vestiti, con la giacca e tutto il resto, ma nonostante questo, lei mi invitava ad avvicinarmi al bordo della vasca. Solo a quel punto realizzavo che in realtà era vuota, insomma l’acqua non c’era, era solo cemento. Eppure lei continuava a insistere: dovevo tuffarmi. Io provavo a farla ragionare, ma lei non voleva saperne. Non ricordo il sogno come andava a finire: mi sveglio sempre quando penso di morire. La prima volta che l’immagine mi si è presentata ero in ufficio, avevo appena concluso una call con il reparto marketing, uno dei colleghi in videochiamata aveva una camicia azzurra e a un certo punto, per sbaglio, si era rovesciato addosso del caffè. Dottore, lei è finito in un mio sogno, ma io sono mai finito in un suo? Da quanto poteva stare lì quel corpo? Voglio dire, quella mattina faceva caldissimo, ne sono certo, ricordo la sensazione delle mani sudate e poi quel polso. Le dà fastidio se apro la finestra? Quel cadavere fumava. Spaccarsi il cranio contro il suolo dopo un volo dal settimo piano che effetto fa? Nessuno può saperlo. Che vuol dire fare esperienza di qualcosa che nessuno può comprendere, che nessuno sa spiegare? La morte è l’unica cosa che non possiamo raccontarci, ci chiediamo tutti che cosa ci sia dopo, ma la verità è che non abbiamo la minima idea neanche di quello che c’è prima. Cosa si prova a morire? Chi sopravvive resta col trauma, col dolore, ma quella roba lì non è la morte. La morte è un polso spiaccicato sull’asfalto. Sa, quando ero bambino volevo fare il pittore. Eravamo in vacanza in Spagna e con i miei genitori siamo andati al museo. Lisa non la smetteva di frignare e mamma era nervosa, ma ormai avevamo pagato il biglietto e non aveva senso andare via. Fu lì che mi ritrovai per la prima volta davanti a quelle figure enormi, grasse, voluminose, con gli occhi piccoli e le bocche ridicole. Scoppiai a ridere, me lo ricordo bene, ridevo di gioia: qualcuno era riuscito a capire quanto sia fottutamente assurdo il modo in cui ci comportiamo. Da un lato c'era mia madre che strattonava Lisa con la voce furiosa e bassa di chi non vuol farsi sentire e ci riesce malissimo, dall’altro c’era mio padre che si teneva distante e girava con le mani in tasca tra le sale. Entrambi interpretavano un ruolo a cui si sforzavano in tutti i modi di somigliare: tutti fanno così. Ridicoli. Ma chi erano davvero, poi? Chi sono? Ed eccoli, finalmente, quei quattro musi sul punto di scoppiare, a smascherare la follia delle nostre pose plastiche, forzate, prive di qualsiasi senso logico. Avevo tredici anni e Botero mi aveva appena liberato. Anche io volevo liberare gli altri e invece sono finito in un ufficio qualunque a gonfiarmi come un palloncino. Dottore, quanto costa parlare?
«Ci sono testimoni?».
«Sì, una decina, gente che si trovava sotto al palazzo per caso. Nessuno ha visto il momento in cui si è lanciato. Tre di loro erano in fila per prelevare dalla banca di fronte, se ne sono accorti per il rumore generato dall’impatto».
«Brutta storia».
«Già. Aveva da poco compiuto trent’anni. Col caldo di stamattina, poi. Quando siamo arrivati, il corpo era già in un pessimo stato».
«Possibile che nessuno sia riuscito a intervenire?».
«Erano tutti in pausa pranzo. Si è chiuso a chiave nell’ufficio e poi si è lanciato. Abbiamo i filmati ripresi dalla videocamera di sorveglianza che dà sulla stanza. Guardi».
«Sbaglio o sembra che stia parlando con qualcuno?»
«Già. Deve aver avuto un esaurimento nervoso. Nessuno tra i colleghi aveva notato niente di strano, lo descrivono tutti come un ragazzo normale, di compagnia».
«La famiglia è stata avvisata?».
«Sì. Ho l’impressione che non si sentissero spesso. La sua ex fidanzata ci ha detto che la scorsa settimana aveva avuto un malore durante la notte, ma niente che potesse destare preoccupazione. Di certo lei mi è sembrata la meno sorpresa».
«Mmm. Ha lasciato bigliettini? Una nota scritta?».
«Nulla. Aveva preso appuntamento con uno psicologo, però. Sarebbe dovuto andarci stasera».
«E il computer?».
«Pulito. Era aperto sulla pagina di un quadro di quel tizio, come si chiama? Quello che dipinge la gente grassa».
«Botero».
© Un racconto di Marica Gagliardi - Illustrato da Antonella Depalma - Editing di Chiara Bianchi
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