Lo sguardo | Racconti Indigeribili

Lo sguardo | Racconti Indigeribili

Scritto da Claudia Villani
 - Illustrato da Simona Barone-


Lo sguardo

Io, quando la vedo, Sara, che sta là a pulire il bagno, tremo. Perché mi sembra troppo bella per questo. E mi sembra che lei mi vede, che la guardo e non dice niente. Ma mi vede, non come gli altri che mi intravedono. E ‘sta faccia, ‘sta faccia brutta come quella di mio padre, è diversa, mi pare che non ce l’ho quello sguardo, lo sguardo del disprezzo, lo sguardo suo.
Sara questo fa. Ed è più di tutto quello che hanno fatto gli altri. E chi sono questi altri? Io mica lo so. Io so chi sono io anche se non mi credete. E magari manco Sara ci crede. Perché lei c’ha trent’anni e un bambino di cinque. E io per lei forse sono come suo figlio, anche se di anni ne ho quindici. E quando penso a questo un po’ mi viene la faccia di mio padre. E mi guardo nello specchio del bagno, mi guardo e sento la saliva salire alla bocca. E lo butto uno sputo su quella faccia da stronzo. Ché solo quando è morto ho preso pace. E forse manco è vero. Perché sto qua e parlo di lui anche se voglio parlare di Sara.
… nella tomba insieme a lui dovevo stare, così forse ‘sto verme sarebbe sparito. Un verme che si trasmette come una malattia. Lo dicono tutti che è così. Pure Irene lo dice; Irene che c’ha sempre quei denti gialli che quando li vedo penso alle lucertole. Però è lei che mi ha salvato quando c’avevo un anno e lui mi aveva portato a una festa; si era dimenticato di me e m’ero addormentato sotto i cappotti e stavo soffocando.
Irene adesso è vecchia e non mi piace come mi piaceva quando ero piccolo. Però lei mi è rimasta. E allora me la tengo e ogni tanto ci parlo anche se lei non sente più tanto bene. Le dico che mi piace andare a scuola solo perché c’è Sara. E perché con gli amici posso parlare de la Roma. I professori mi guardano e io vedo quello sguardo là, quello della colpa.
E mi ricordo di quando l’avevano invitato a vedermi giocare perché forse mi prendevano nella squadra dei grandi e lui era venuto solo per dire: «Io questo qua non lo conosco, non è figlio mio». Perché è colpa mia se mia madre è morta. È morta quando io sono nato e allora penso che nascita e morte non sono cose così diverse se possono succedere insieme.
A scuola Sara sta vicino alla mia classe e io cerco di stare fuori il più possibile. Mi metto là e lei sorride. Pure Adele sorride ma Adele è lontana da noi, Adele non ci capisce. Dice sempre di come la sua generazione sia migliore. Migliore… perché? E Adele me lo spiega, tira giù tanti di quegli esempi che mi confonde ma alla fine mica lo capisco il motivo. E quindi penso che lo dice solo perché a un certo punto, quando si è vecchi, bisogna sapere di essere di più se no la vita pare sprecata.
Quindi tutto l’anno del mio terzo liceo l’ho passato a raccontare a Sara dei miei finti amori, a fare slogan di calcio e a cercare di sopravvivere alle verifiche. Poi a marzo è successa una cosa. E non lo so se è successa perché Sara sarebbe andata via per sempre o se è successa perché doveva succedere, come si dice in questi casi.
Un giorno Sara mi ha riportato a casa perché avevo perso l’autobus e gliel’ho chiesto, le ho chiesto se voleva uscire con me. Lei ha sorriso e ha guardato nei miei occhiali così spessi che non lo so se mi è arrivato la sguardo suo vero. Perché in quello sguardo l’ho visto pure a lei, il disprezzo. Ho stretto i pugni tanto forte che mi pareva dovesse fermarsi lo scorrere del sangue.
Sono tornato a casa e manco ho voluto pranzare tanto che Irene si è preoccupata. Ho preso a pugni tutto quello che c’era da prendere a pugni nella mia camera e il dolore mi ha fatto sentire un po’ meglio. E da quel giorno ho cominciato a farlo sempre. E più lo facevo più sentivo che il peso della faccia diventava leggero.
Un giorno ho aiutato Sara a pulire, l’ho fatto per scherzare ma lei ha sorriso, come fa sempre. E quindi mi è venuta voglia di fare lo scemo. Ho preso il bastone della scopa e l’ho sollevato a mo’ di bandiera. E quindi le maniche della maglietta sono cascate e Sara li ha visti, i tagli. Ed è diventata rigida, così tanto che sembrava lei il bastone della scopa. E quando mi ha guardato stavolta ho sorriso io per fare finta di niente.
A casa Irene si è arrabbiata. L’hanno chiamata da scuola perché mi vogliono bocciare. Ma quello che oggi sembra una tragedia domani sarà sparito. E questa è una cosa bella. Così lascio che Irene gridi perché è sorda e la sente tutto il palazzo e a me questa cosa fa sorridere.
Quella settimana non sono andato a scuola per due giorni perché avevo un gran mal di testa; per fortuna la Roma aveva vinto. Quando sono tornato Sara non c’era e ho dovuto aspettare un’altra settimana per rivederla. Adele mi prendeva in giro, mi tirava un pizzicotto sulla guancia e diceva che quando chiedevo di lei diventavo rosso. Quando è tornata l’ho salutata mentre con gli altri, durante la pausa, stavamo facendo un coro per inneggiare a la Roma. Poi sono andato da lei, le volevo raccontare qualche cazzata ma lei mi ha anticipato. Io già mi ero dimenticato e solo mo’ ho capito che voleva dire. Mi ha detto quelle parole, quelle quattro che nessuno mi aveva mai detto prima. E quando me le ha dette, lo sguardo suo, lo sguardo del disprezzo, mi è sembrato cancellato per sempre. 

 

 

© Un racconto di Claudia Villani - Illustrato da Simona Barone - Editing di Chiara Bianchi


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