Di pancia | Racconti Indigeribili

Di pancia | Racconti Indigeribili

Scritto da Marco Santeusanio
 - Illustrato da Alessandro Ferioli-


Di pancia

Il piatto fuma, davanti a me: tagliatelle col ragù alla bolognese. Basta questo a farmi tirare una bestemmia. Cazzo, uno dei piatti che più mi fanno ribrezzo. Il destino ci doveva mettere pure questo carico, come se già stare a tavola in famiglia non fosse una sofferenza sufficiente.
Perché, porca troia, non sopporto più i loro codici di condotta, i discorsi buonisti, il galateo impeccabile. Non tollero il loro mettere la testa sotto la sabbia, fuggire dal conflitto, evitare discussioni accese, tutto ciò che è umano e imperfetto. Non accetto che censurino qualsiasi argomento che possa richiamare anche solo per un attimo la spiacevolezza che, a sessant’anni suonati, dovrebbero averlo capito, fa parte della vita.
Perché è quando sono con loro che mi sento come se avessi una grande verità da urlare, ma m’avessero mozzato la lingua con un gigantesco paio di cesoie arrugginite.
Com’è la pasta? Chiede mia mamma. E come ogni maledetta domenica, mio padre, senza manco aver portato una forchettata alla bocca, le risponde che è buona, buonissima. Perché è un paraculo, ed è assolutamente terrorizzato dalla possibilità che un giudizio negativo possa aprire il vaso di Pandora, scatenare una nuova sceneggiata di mia madre.
Invece a lei vorrei dire che fa veramente cagare, che la bolognese non è proprio arte sua. Che il macinato lo fa incredibilmente scotto e sciapito, mentre il sugo lo condisce sempre con troppo sale e poi lo cuoce fino a bruciarlo. Che papà le dà ragione solo perché è un pavido senza palle, e vorrei chiederle come cazzo fa a non accorgersi che manco si è mangiato un boccone, del suo primo piatto.
Eppure non lo faccio, resto muto, e piuttosto mi sforzo di riempirmi la bocca con quella sbobba, pur di non parlare.
Sento adagiarsi il bolo sul fondo del mio intestino. E lo stomaco inizia a gorgogliare.
«Mi ricorda sempre Bologna! Vi ricordate quando ci andammo? Fu una bella gita, mi manca!».
Sgrano gli occhi. Non posso crederci. Mia mamma non può averlo detto davvero.
Mi visualizzo, mentre m’alzo dal mio posto, scaglio il tavolo contro la parete, e le vado a sbraitare contro, sputandole in faccia.
Ma dici davvero? Ma non ti ricordi che piovve ogni singolo giorno, faceva un freddo cane, e che ci andammo nel periodo più di merda delle nostre vite? Che c’è, forse ti sei dimenticata delle urla a notte fonda, delle liti a ogni ora, delle sedie sbattute a terra dalla rabbia? Non ricordi dei pianti che ti sei fatta? Che a Bologna ci andammo tutti e tre, così, per riparazione, per cercare di recitare alla famiglia felice, dopo che avevi scoperto l’enorme casino che papà aveva combinato con quella sua collega di Milano?
Invece rimango seduto al mio posto, e, intanto, il ventre continua a sfrigolare. L’intensità delle contrazioni addominali cresce sempre di più. Io continuo a mangiare.
«Gianluca, ma stai schizzando tutto! Ma come mangi? Ma ti sei dimenticato, che t’ho insegnato l’educazione! Ti sei fatto proprio uno zulù».
È mia nonna Rosaria a chiosare così, sulle ultime forchettate del mio martirio. Brucio dell’urgenza di sospirare e dire che no, non sono io uno zulù, non lo sono mai stato, ma è lei, a essere una cagacazza esagerata. D’altronde, non è un caso che ogni persona mi conosca mi consideri un ragazzo tranquillo e normale, mentre, a lei, tutti quanti la considerano una vecchiaccia intransigente e integralista. E io t’ho subito per tutti gli anni della adolescenza, nonna, a te e a tutti i tuoi rimproveri inutili. Madonna, m’hai fatto venire un campionario intero di paranoie tale che dovresti essere tu a pagarmi l’analista. M’alzerei solo per sussurrarti all’orecchio che m’hai stracciato i coglioni.
Eppure no, chino il capo, e accetto la ramanzina. Come quella sui jeans stracciati, sul fatto che dovrei perdere qualche chilo, sui cantanti sboccati che sento, sulla robaccia a fumetti che leggo e che regolarmente mi viene buttata nella pattumiera.
Dio, quanta merda che devo ingoiare.
È così che sento questo movimento che, con sbuffate sulfuree, mi sale dalla punta del colon fino a dentro la bocca. Diventa incontrollabile, irresistibile. Stringo i denti, pur di contenerlo, tendo ogni fibra del mio corpo ma, no, non si può fermare.
Spalanco le labbra e caccio un rutto bestiale.
Un ruggito da leone infuriato, un boato da bombardamento aereo, il rimbombo d’un terremoto forza venti. Mentre ognuno dei miei commensali sbianca, il latrato intestinale non accenna a ridurre la propria intensità e continuo nel mio urlo di battaglia per minuti interi, interminabili, e d’improvviso penso che il mio fiato corroderà le loro facce, porterà via la pelle, fino a scarnificare i crani lucidi, e lasciarli in polvere.
Un rutto: tanto mi è bastato, per far crollare i teatrini dell’ipocrisia e della falsità. Per fare terra bruciata di questa recita che continuo a chiamare vita familiare.
Quando cala di nuovo il silenzio nella stanza, loro restano muti, sbigottiti, senza sapere che fare. Fantasmi di cartone a cui è crollato il mondo addosso, che hanno appena assistito al disfacimento d’ogni loro valore e codice di condotta.
Io vorrei scappar via, ma non per vergogna. Piuttosto perché ho l’assoluta certezza che la mia performance gastrointestinale abbia incrinato le fondamenta del nostro appartamento, e che, in pochi attimi, le pareti di gesso si accartocceranno e crolleranno sulle loro teste, seppellendoli come mummie.
Queste tre salme resteranno qui a imputridire e io intanto con l’eredità me ne andrò in giro per il mondo, saltando da un concerto di un trapper all’altro coi jeans pieni di buchi, mentre m’abbofferò fino a esplodere e scriverò fumetti osceni pieni di budella e viscere che mi faranno fare ancora più soldi, tutti da sperperare in festini, alcool e puttane, perché Dio, ti giuro, ho una voglia matta di scoparmi ogni femmina sulla faccia della terra prima, e il mondo intero poi. E mentre faccio tutto ciò di ridere, ridere, ridere, sguaiato.
Forse sì, mi basterà tanto.
Allora sarò salvo. Allora sarò libero. Allora sarò io.

© Un racconto di Marco Sateusanio - Illustrato da Alessandro Ferioli - Editing di Paolo Perlini


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