Villeggiatura | Racconti Indigeribili

Villeggiatura | Racconti Indigeribili

Scritto da Maria Teresa Renzi-Sepe
 - Illustrato da Leonardo Rizzi-


Villeggiatura

Fra centinaia di post sulla bacheca, qualcuno lamenta di lavori rumorosi a S., in via delle Magnolie. Al numero 2, ci abitavo io con la mia famiglia e quella – la conosco bene – non ha mai cambiato nemmeno le tende in salotto. Non avrebbe mai permesso scompiglio o invadenza nelle proprie scelte. Poiché ero certa che non si trattasse di casa dei miei, non potevano esserci alternative dato che c’era solo un altro civico nella via.
In questo gruppo Facebook in cui una volta si vendevano mobili vecchi ma che adesso è usato da una dozzina di sessantenni per scambiarsi gli auguri di buone feste, leggo una notizia che mi arriva per caso, e con qualche mese di ritardo. Così decido di tornare a S. 

Non ci torno da almeno cinque anni. Preferisco immaginarmela come la ricordo.
Ad agosto arrivavano i turisti a infastidire noi di zona. Sotto i pini, parcheggiavano le loro berline impolverate dalla sabbia. Parecchie erano di quel grigio che andava di moda negli anni Novanta; mia nonna lo chiamava color “carta da zucchero”, ma io non ho mai capito cosa c’entrasse con lo zucchero. 
Davanti casa c’era una bifamiliare, con la facciata dipinta per metà blu e per metà rosa. Capitava spesso nelle case da villeggiatura: gli acquirenti non riuscivano a mettersi d’accordo su nulla, neanche sul colore della vernice. Così i viali erano puntinati di civici multicolore, come il dentro del Cucciolone. 
La metà rosa della casa era di proprietà di una coppia di quasi sessantenni, senza figli. L’avevano acquistata qualche anno prima. Dicevano in previsione della pensione di lui. Commerciava qualcosa con l’estero; ricordo lunghe telefonate nel cuore della notte. Percorreva in cerchio il terrazzo che affacciava sulla strada, il telefono cellulare in mano, l’antenna tirata in su vibrava a ogni suo passo. Lo vedevo ripetere quel rituale dalla mia camera, io che non dormivo per il caldo. Il tono era dolce, poi si indispettiva all’improvviso e si infuriava. Conversava in lingue sconosciute, che mi facevano immaginare posti lontani, esotici oppure scandalosi. 
Di lui sapevo questo e poco altro. Zia Nora, così chiamavo sua moglie, indossava abiti a fiori corti e scollati, profumava di colonia orientale. Aveva le unghie a forma di mandorla e sempre smaltate di rosso. Sulle dita, un po’ tozze, portava grandi anelli d’oro con pietre colorate. Fra i polpastrelli ingialliti teneva lunghe sigarette. Le sue mani emanavano un’aura di santità.
In quel periodo non avevo amiche. Trascorrevo i pomeriggi estivi schiacciando con i polpastrelli i ragni rossi in processione lungo il vialetto di casa. Zia Nora, sola quanto me, affacciata alla finestra del piano alto a fumare, mi guardava. Poi fischiava e sventolava la mano. La raggiungevo nella sua casa, e passavamo il tempo a dipingerci le unghie di rosso e a guardare le repliche di Beautiful sul suo divano pervinca a tre posti.
Occupavamo il terrazzo, lei seduta tra gli oleandri magenta sempre con la sua sigaretta. Io giocavo con l’edera sul muro, tra le cui fronde viveva una coppia di pappagalli, grandi come il mio avambraccio.
«Gli disturbi l’amore» mi rimbeccava lei, «quelli vivono là da prima di noi» mi diceva.
Oltre una tenda di perline di plastica colorate, che mi attraversavano il corpo come pioggia, zia Nora pregava tra le scope.
Immagini di santi tappezzavano i muri. San Giorgio e San Sebastiano in pose plastiche, evocative, esprimevano una sessualità dirompente. Pochi vestiti, molti rigonfiamenti, muscoli ovunque. E poi c’era lei, la Vergine in estasi, col volto rigato da qualche lacrima, ricoperta di sangue o di rose. Sul tavolino, stecche di incenso ridotte in polvere si mischiavano alla cenere delle Merit. Al centro, una foto incorniciata d’oro. Ritraeva una ragazza con le trecce, pressappoco della mia età.
Zia Nora mi beccò a fissarla:
«Ti piace?»
Feci di sì con la testa, e lei continuò:
«È bella, non trovi?»
«È più bella della Vergine che piange», dissi io. Ed era vero, ma non sapevo spiegare il perché. Poi mi feci coraggio e le chiesi chi fosse.
«Un fantasma», rispose lei. 

Mi sono lasciata cacciare via dai turisti e poi dalla mia famiglia, mentre zia Nora è rimasta nel suo sancta sanctorum, ed è lì che l'hanno trovata morta. Nello stanzino delle scope – dicevano così nel gruppo di Facebook.
La casa è stata venduta. La metà che apparteneva a zia Nora l’ha acquistata la famiglia che viveva nell’altro lato, per farci vivere figli e nipoti. La facciata ora è tutta bianca. Ma i pappagalli? E il fantasma? Non saprò mai il suo nome.
Casa dei miei è quasi uguale, solo l’intonaco è sbiadito, e mi sembra più piccola. Il frinire dei grilli non mi lascia percepire le voci al suo interno. Forse c’è qualcuno.
Sento un pizzico sul braccio sinistro, una zanzara. Sono più veloce e la schiaccio. Se lo merita, penso; dal suo corpo esce il mio sangue che si confonde con lo smalto rosso sulle unghie.
«Zia Nora», dico sottovoce. Quasi a invocarla.
Faccio qualche passo in avanti, verso casa dei miei. Una casa che non è mai stata mia. Il campanello è vicino alla mia mano. Stavolta lo premo. Stavolta non sono sola, c’è il mio fantasma con me.


© Un racconto di Maria Teresa Renzi-Sepe - Illustrato da Leonardo Rizzi - Editing di Chiara Bianchi


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