Voce di Babele | Racconti Indigeribili

Voce di Babele | Racconti Indigeribili

Scritto da Andrea Bocca
Illustrato da Giulia Dasiari


Voce di Babele

Biografo, la prego, annoti: era un semplice uomo, investito di un potere senza domini per intercessione di mani ben più potenti e leggere delle nostre. Legalmente, sulla carta, un capo di stato.

«Ti prego di non lasciarmi cadere. Sostienimi. D’accordo?»
Il giorno precedente alla mia investitura ho fatto un sogno. Visione di scoppi assordanti, aliti anfetaminici – simili a quelli delle povere bocche marce di “casa” – ricordi lontani. Mi sono svegliato in un sudario unto, in una stanza spoglia di malizia, serva, come l’uomo che la occupa. A colazione, ho mangiato patate lesse e una tisana alla melassa. Dal nervosismo, credo di essere andato al bagno almeno una decina di volte.
«Avrò mai la stoffa del pastore?»
«Ascoltati».
Fisso quel martire inchiodato su una parete del gabinetto. Mi consola come fossi un povero vecchio intento a sviscerarsi. Sospiro. Sento le ascelle imperlarsi e lo sconforto mi scivola addosso, poi la nostalgia. Arriva l’ennesima fitta allo stomaco e immagino di essere risucchiato in quel buco coprofago. Mi svuoto ancora.
Un cielo terso, sporcato di luminosi strascichi, riveste la piazza. La gente esulta, urla, canta, batte le mani come spettatori di un romano spettacolo. Elicotteri, fari, mani, mani, lucine di mani, lucciole, e un microfono. Signore.

«Congratulazioni sua Santità!»
«Padre, Padre, Padre Nostro».
«Sua Santità, permetta che le esprima…»
«Hip hip urrà!»
L’emozione di una vita, come di un bacio innocente al gusto di pesca umida dato nell’oratorio della parrocchia. Tra tutte quelle facce sorridenti, piene di dentiere e screpolature, vedo il volto di mia madre. La mia dolce, alata madre. Prega per me. Socchiude gli occhi rapita e spira. Un furore celestiale, potente, pesante spasmo divino. Sorreggetemi ‘o tutti.
Mi sveglio nel cuore della notte. Un ronzio lontano si accumula e prende forma. Voci d’ombra al riparo al di là della porta. Mi vedo, vecchio e assopito, disteso a letto, incuriosito come quella graziosa giovinetta fagocitata in meraviglie. Cresce il sospetto di un pover’uomo in procinto d’essere trafitto. Qualcuno bussa, entra. È il mio segretario. Efebico e maturo Remi.
«Cosa succede?»
«Sua Santità, babbo, mi dispiace disturbarla. Una questione della massima urgenza».
«A quest’ora della notte?»
«“Come un ladro nella notte” temo di doverla importunare. Dovrebbe seguirmi, Sua Santità. Le serve una mano? Ecco, lasci che le accenda la luce. Trova la camera confortevole?»
«Cosa succede»
Entriamo a palazzo accompagnati da fiotti di luce pallida. Luna amica, sorella, custodisci la carne di questo tuo servo. Vergine, agnello, abbiate cura di questo povero vecchio. Allontano l’ultimo alito di sonno rimasto in corpo seguendo con fatica il passo di giovani stinchi forti.
Ci troviamo in un ampio salone ora. I miei occhi vi ritrovano una schiera di volti amici, carminici, fermi ad aspettarmi, vestiti a puntino. Dei visi di pace, cordiali. Mi accolgono con pazienza, mi accompagnano al centro della stanza. Nessuno parla.
«Fratelli, che succede».
Rompo la notte.
«Sua Santità», intona Remi, «descriverle la gioia per la Sua elezione necessiterebbe parole a noi ancora sconosciute, parole d’amore insostenibili. Fintanto che meditabondi e muti, vogliamo celebrarla seguendo quella che è la tradizione, così come è stato con i suoi predecessori. Cardinal Boncore, prego».
Da una crepa nella folla si fa avanti il Cardinal Boncore. Ha le gote rosse rosse, uno sguardo vespertino. Tra le braccia porta una coperta, del grigio pattume, peloso e orecchiuto, una testa d’asino. Lumini rischiarano gli occhi della sala. Mi si porge la testa dell’animale. Una maschera a testa d’asino.
«Sua Santità, la indossi».
«Come?»
Mi parla di una chioma, l’elmo di un prode condottiero (“nel suo caso, di anime”), umile e servo. Divento chiave di volta di un rito antico quanto la prima pietra posata, gaudioso, ssshhh-egreto. Quelli a me più vicini mi accarezzano sprigionando parole d’incoraggiamento, parole dolci, ferme come cemento. Che se ne farebbe Carroll di un sognatore spento, rallentato, che se ne farebbe dell’allucinazione di una testa d’asino e d’un reggimento di cardellini. Il volto di mia madre è sparito, sbiadito via. Con strabordante stupore indosso la maschera polverosa, mi sottometto.
«Ora, fratelli, ascoltate tutti. Grande è l’umiltà del Pastore, grande la sua anima servile e prescelta. Grandi le pene e le gioie. A turno, o fratelli, a turno dichiarate il vostro amore a questo nostro nuovo Padre. Perché anche nel dolore e nella sofferenza possa amarci ancora più fortemente. Colpite, fratelli cari, colpitelo con amore».
Âne, Eselin, donkey, burro, ezel, asino, osioł, punda, măgar, dicono. E carezze anellate, dure, forti, piovono a coprirmi di bruciante gioia. Con voce di Babele, mi chiamano Maestro, Santissimo, Abba, Abba. I loro mocassini lustri mi pestano febbricitanti. Sono una foglia secca in balia di un fiume di carne, in un giorno di festa, col sole che brucia e l’aria che scompiglia. Prego di non morire. Raglio ibrido e piango umilmente per il mondo.


 © illustrazione di Giulia Dasiari | Racconto di Andrea Bocca | Editing di Chiara Bianchi 


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