Scritto da Mauro Bernasconi
Illustrato da Clarissa Gigante
‘O rraù
«‘O rraù ca me piace a me
m' 'o ffaceva sulo mammà.
A che m'aggio spusato a te,
ne parlammo pè ne parlà.»
Eduardo De Filippo
Mammà, tu ‘o ssaje, ti voglio bene.
Come ne hai sempre voluto tanto a me, d’altronde, dandomi la forza anche nei momenti peggiori.
Pure quando il mondo mi si rivoltava contro e io gli facevo la guerra, a lui e alle mie paure, tu eri lì, guardavi le mie occhiaie e i miei piedi scalzi, poi mi prendevi la testa fra le mani e, carezzandomi, dicevi: «Tu sì nato fesso… nun ce sta nient’ a fa!»
La stessa espressione ce l’avevi dipinta in faccia, quando ti presentai lei.
«Se va bene a te…», dicesti, o qualcosa del genere.
E a me andava bene, eccome. Io la amavo. Mammà, quanto la amavo.
La amavo tanto in quei venerdì sera, quando usciva per la pizza con le amiche e poi tornava mezz’ubriaca. Lei, che non aveva mai bevuto.
Continuai ad amarla pure quando tornavo a sorpresa a casa con i fiori, e ci trovavo il promotore finanziario in camera da letto che si rivestiva in fretta.
Non era una moglie perfetta, no, ma io la amavo lo stesso.
Persino quando le confessai che sognavo di diventare padre, prima o poi. E che sarei stato un padre fantastico. E lei rise, mammà, mi rise in faccia. Oh, sapessi quanto rise…però io la amavo.
Poi se ne andò. Aveva bisogno dei suoi spazi, disse, e quegli spazi erano lontani dai miei. Mi lasciò da solo con la casa e tanti, tanti conti da pagare.
«Era una donna dalle mille contraddizioni», mi disse, con l’aria triste, il promotore finanziario. Mi sa che ne aveva lasciati tanti pure a lui, di conti da pagare.
Ma anche allora non mi abbandonasti, mammà. La mia stanzetta era sempre lì ad aspettarmi, dicesti. E io fui felice di tornare, così avresti potuto tenermi di nuovo la testa fra le mani. Pazienza se pensavi che fossi sempre più fesso, quella è una cosa che non potrò cambiare mai, temo.
Come il fatto che la amavo, mammà.
Un giorno mi telefonò per dirmi che le mancavo tanto. Tornai a casa nostra, come prima, e per un po’ le mie paure smisero di venire a farmi visita la notte.
Cancellai d’un colpo il passato, con la consapevolezza, dolce e struggente insieme, che se mi fosse stato richiesto avrei affrontato tutto un’altra volta, pur di poter stare ancora con lei.
Fino a quel giorno.
Era domenica, a pranzo. Io ero andato a messa, che lei non ne ha mai voluto saperne di accompagnarmi, e avevo comprato pure le pastarelle.
Mi sedetti a tavola. «Ho fatto il ragù» disse lei.
La scolatura dei piatti, mammà, dico davvero.
Quello non doveva permettersi di chiamarlo ragù. Non con me, che sono abituato al tuo.
Fu un attimo, e le infilai la testa nella pentola.
Sono sincero: non avrei mai voluto che andasse a finire così.
Ma sapessi come pippiava*, mammà…
*sobbolliva, sbuffava. Detto di pietanza sugosa messa a cuocere a fuoco lento.
© illustrazione di Clarissa Gigante | Racconto di Mauro Bernasconi | Editing di Chiara Bianchi
‘O rraù | Racconto | Indigeribili
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