Tra libri in equilibro | Racconti Indigeribili

Tra libri in equilibro | Racconti Indigeribili

Scritto da Nora De Giacomo
Illustrato da Luca Grassi


Tra libri in equilibro

Erano troppi e non ho retto la loro euforia. 
Dovrei essere loro riconoscente, qui si vive di turismo, ma oggi parevano cornacchie fuori dal mio negozio. Dalla strada indicavano i miei libri, facevano finta di apprezzare ma era solo facciata, un rumoroso far vedere che leggono.
Mi sono barricata dietro il bancone, lontano dalla vetrina di ingresso e dalla gioia grottesca del passeggio. Se fossero entrati mi sarei finta morta, come un opossum. 
La mia libreria è la più bella tra quelle di Port’Alba, c’è odore di legno, rumore di carta e cura, e libri di fuori non sono impilati a casaccio come quelli dei miei colleghi: io li so sistemare bene uno sull’altro, in equilibrio. 
Ai turisti piace il mio negozio e in altri momenti non mi fanno rabbia, nemmeno quando mi vogliono nei loro selfie, “may I take a picture?”, e io lì che annuisco, sorrido, ammicco anche e, quando loro ammirano le sinuose coreografie esterne, le pile di volumi che da terra si elevano come torri, dimostro persino una capacità rigogliosa di apprezzarli.
Oggi invece subodoravo la pressione di un imminente crollo emotivo, uno di quelli imprevisti e incomprensibili che a cicli mi agganciano e mi spengono. Mi capita. So che non ho i livelli fisiologici di noradrenalina, vivo di apici e decompressioni, anche se ho sempre fatto finta di niente perché non mi piacciono le definizioni. Ma in fondo io lo capisco quando l’energia comincia a evaporare e il vuoto a incombere. Anche stamattina ho sentito quella afflizione che precede sempre l’angoscia più nera. Così ho deciso che, non essendo io un opossum, se quegli idioti di turisti si fossero avvicinati ai miei libri mi sarei concessa di mandarli a fanculo prima di capitolare. 
Nel frattempo, mi sono sbrigata, ho raccolto le mie ultime riserve di vitalità per lavorare e mettere in ordine tutto. Ho chiamato il distributore, mi sono spostata tante volte, avanti e indietro sui miei tacchi alti, dal magazzino al negozio; ho pulito i libri antichi e ho sistemato meglio quelli di fuori; ho chiamato al telefono Andre e ho chiesto cosa avesse fatto a scuola e chi lo avrebbe accompagnato a calcio, e ho telefonato a Vincenzo per ricordargli che Andre aveva calcio. Se lo ricordava. Ho chiuso la telefonata ed è entrata la signora Mayer che, da quando mi sono avvicinata alla comunità, passa sempre a salutare e chiede se può vedere i volumi di letteratura ebraica, con quel suo modo quieto di sfiorare il mio nome, “mia cara Ruth”, così famigliare. Ho chiacchierato anche con lei, una ventata di aria calma. 
Quando è andata via, come previsto, loro sono arrivati.  
All’esterno qualcuno parlava al telefono con un chiaro accento milanese. Era un giovane, rideva sguaiato e ha balbettato fonemi incomprensibili almeno fino a quando ha dichiarato senza interruzioni di essere in una via folcloristica «con tücc i liber de foeura per tera». Il volume della voce era alto e il tono gaio detestabile. Avrà avuto vent’anni, come gli altri che l’hanno poi raggiunto sghignazzando. Tra loro c’erano anche un ragazzo e una ragazza americani, credo, altissimi, biondi e a loro agio nel gruppetto dei milanesi. Li ho guardati tutti. Non facevano che ridere e fotografarsi davanti alla mia vetrina.
Ecco, li stavo già disprezzando, ma ancora in silenzio. 
Ho pensato a Milano, a quando ci abitavo da ragazzina. Casa, scuola, amiche, danza e Carlo, il morosino bravino che piaceva ai miei. Poi era arrivato Jonathan, l’americano dell’anno all’estero che aveva scelto l’Italia e, con lui, la scoperta della sensualità più spinta. Però Carlo mica l’avevo lasciato. Avrei dovuto intuire già da allora la mia tendenza a un intimo e devastante fluttuare tra poli opposti. 
Ho pensato ai miei, alla cattedra in Storia di mio padre e allo studio al piano di sopra di mia madre. Saggista e paladino della memoria lui, psicoterapeuta del tipo Hic et Nunc lei. Anche loro due poli opposti che non hanno mai voluto trovare una sintesi in un’aporia di matrimonio. 
«Vado a studiare Lettere a Napoli» ho detto un giorno. Mi hanno risposto «Va bene». Sono venuta qui, agli antipodi, per non sentirli litigare.
Napoli è atmosfera, è il buio elevato di una piazza illuminata solo ai margini da un colonnato sacro, è il musicista di strada, è il San Carlo e l’opera e il canto anaforico del mare. È il libro sospeso che qualcuno acquista per qualcun altro, come il caffè, è l’antitesi di Milano e i mille culure dei libri di Port’Alba. 
Quando sono arrivata tutto riluceva; peccato che appena è nato Andre avevo smesso di vedere a colori. Ormoni impazziti e Napoli che cadeva nell’ombra. Finché lui era nella pancia lo proteggevo naturalmente ma, quando è uscito, non ci riuscivo più e avevo paura del suo aggrapparsi a me con quella fiducia di un istinto che non sapevo ricambiare. Non sono una buona madre. 
Quei cinque stronzetti davanti al negozio, sempre più ilari e imbecilli, con i loro telefonini e le foto da postare su Instagram. Mio figlio mi succhiava il latte e mi beveva via la vita lasciandomi vuota, dolorante e sola. Maledetti cellulari inutili. Vincenzo era sempre fuori per concerti, i miei genitori lontani chilometri e io qui, con tre chili e mezzo di esserino indifeso in braccio, anche lui solo come un cane. I risvegli di notte con le sue urla. Distrutta. E nessuno che si accorgeva di niente. Sono uscita dal negozio, li ho guardati ancora meglio e ho visto bene quelle loro manacce scoordinate che non ho potuto non figurarmi sui miei libri in equilibrio. La ragazza aveva lo smalto rouge et noir. Sbeccato. Non mi piace lo smalto rosso scuro sbeccato, mi ricorda il sangue che mi usciva dalle ragadi del seno. 
Quello che, più degli altri, mi pareva americano mi ha fatto: «Hi» con una mano alzata e un sorriso ebete e io gli ho gridato: «Hi?» e poi: «Ma tu HAI idea di quanto sono incazzata io? No, neh? La volete finire di infliggermi questo castigo? Cos'è che vuoi fotografare? Dai, dimmelo. Forza, fai questa foto. Fa bello mettere i libri sui social? Magari sullo sfondo ci fai entrare anche la libraia figa, fai vedere i tacchi, neh? Questi… tacco dodici, capito? Ecco, guai a te se ti azzardi. Guai a voi! Guai a voi se postate sui vostri Instagram di merda i miei libri e i miei tacchi»
Gli ho strappato via di mano il telefono e l’ho buttato a terra. Per fortuna non si è rotto. Lui lo ha raccolto allucinato e mi ha detto che devo farmi vedere da uno bravo. 
Me l’ha detto in un perfetto italiano. 
Se ne sono andati. Indignati. 
Sono esausta. Mi siedo di nuovo dietro il bancone, mi vergogno, mi sento in colpa, mi tolgo i tacchi e guardo il nulla. Lo so che là fuori i miei colleghi parlottano. Loro pensano che sia una personcina a modo io, ma non sanno che da quando è nato Andre il mio fluttuare tra poli opposti è diventato lotta tra tsunami e bassa marea. Nessuno lo sa e nessuno deve saperlo, tantomeno Andrea che pensa che io sia in viaggio quando dormo in negozio e crede io abbia il mal di testa quando mi chiudo in camera disperata. 
Nemmeno io voglio saperlo. Odio le definizioni. 

 © illustrazione di Luca Grassi | Racconto di Nora De Giacomo | Editing di Chiara Bianchi 


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