Un romanzo intenso che esplora le contraddizioni e i drammi di una famiglia tedesca del dopoguerra attraverso gli occhi di un figlio. Tra musica, segreti e riconciliazioni, una lettura che tocca il cuore.
Recensione di Paolo Perlini
Il padre di Edgar è il direttore del carcere e ogni tanto organizza dei concerti nei quali lui accompagna al pianoforte qualche violinista famoso. La settimana prima del concerto è faticosa perché non essendo un musicista di professione deve prepararsi, padroneggiare i passaggi più difficili e continua a ripeterli in maniera ossessiva. All’esecuzione del mattino vi partecipano un’ottantina di detenuti del carcere minorile. Al padre piace suonare per loro, con la bellezza della musica cerca di rieducarli, ma è anche vero che i detenuti sono «una massa. Una massa uniforme. Sì, per chi deve suonare, avere di fronte una massa è una buona cosa. Le masse applaudono sempre. Le masse sanno appassionarsi».
L’esecuzione serale invece, è riservata agli amici di famiglia e coppie di laureati.
In casa tutti suonano uno strumento, anche la moglie e i fratelli di Edgar. Un giorno, Werner il fratello più grande, fa notare a Edgar un particolare. Il padre sta provando una sonata di Mozart e ha impostato il metronomo per rispettare il tempo stabilito. Quando attacca il secondo tema va più veloce, lascia indietro il metronomo, «il suo ritmo personale gli piace di più».
Suo padre è fatto così, «dal lato giusto, dice mio padre, si radunano gli esponenti più notevoli dell’umanità» e crede «a un sotto e a un sopra. E non importa se stia parlando di Dio, di Beethoven, di Dostoevskij, di Rembrandt, di Hitler, di Adenauer, di generali o di genitori. Ovunque si volga lo sguardo ci sono essere superiori. È questo il suo mondo».
La personalità del padre si evince proprio da questi particolari: la ricerca dell’ordine, il rispetto della gerarchia, delle imposizioni, delle buone maniere. Un ordine che è pronto a non seguire se gli fa comodo. Il particolare del metronomo ne è un esempio, e non mi sorprende. Spesso sono le persone integerrime a nascondere una grande quantità di scheletri nell’armadio, le prime a trasgredire un ordine che non sia quello personale.
I genitori di Edgar non vogliono passare per nazisti ma sono cresciuti in quel periodo, hanno assorbito quelle forme di pensiero ed è difficile cambiare.
Lo dice anche Gustav Linnenbrugger, un vicino di casa e agente di sorveglianza del carcere:
«Sai, Etja, tendiamo sempre a pensare che i tempi cambino. Ma è vero solo a metà. Le persone restano uguali».
In Edgar, nato subito dopo la fine della guerra, si combattono opposti profondi: da un lato, prova un grande rispetto per il padre, una figura imponente, potente, appassionata di musica; dall'altro, subisce le sue percosse, rendendolo incapace di comprenderlo e di farsi apprezzare da lui. La sua vita in una prigione, quella muraria e quella familiare, contrasta con la sua voglia di evadere e scappare la sera dalla finestra della camera, per andare al cinema.
E poi la tensione che avverte a tavola, quando i fratelli più grandi rinfacciano ai genitori il loro passato, l’aver vissuto e in un certo senso essere stati complici degli orrori del regime nazista. Vittime inconsapevoli di un sogno sfociato in un incubo.
Un incubo che sua madre rivive, dopo aver visto a Monaco la mostra sui crimini di guerra dell’esercito tedesco in Unione Sovietica:
«Tutta la mia vita è da buttare via» sono state le sue prime parole. «Intorno a me ci sono sempre stati solo criminali. Vostro padre. Mio padre. Il nostro esercito. I generali che tutti guardavano con ammirazione. Von Manstein. Kesselring. Uomini che mettevano l’onore davanti a tutto. Che hanno messo la loro vita al servizio della Germania. E sarebbero tutti criminali!».
Una visione che darà il colpo finale alla sua salute, già minata dalla perdita di due figli.
Ma è soprattutto il primo aspetto che traspare in tutta la narrazione: l’autore ripercorre la propria infanzia mettendo insieme tanti tasselli, tante note, frasi musicali che alla fine vanno a comporre quella melodia che sta cercando. Ripercorre la storia della propria vita, mette per iscritto pagine molto dure, che farebbero odiare qualsiasi genitore, ma comprende che dopotutto non era colpa loro.
Edgar esplorando la propria infanzia, comprende meglio il dolore e le colpe rimosse dei suoi genitori, e si riconcilia con loro, con sé stesso e il proprio passato.
E qui sta il significato del titolo: “Finalmente ci hai trovati” di Edgar Selge Lo dice la madre a Edgar in un sogno che l’autore ha da adulto, durante il lockdown. L’autore si sveglia ed è consapevole che sua madre non tornerà più nei sogni, perché quel “Finalmente ci hai trovati” significa, ci hai riconosciuti, perdonati e ora puoi lasciarci andare.
Alla fine viene spontaneo un pensiero: noi, in Italia, ci siamo riappacificati, abbiamo riconosciuto gli orrori, i crimini compiuti in Italia e all’estero dal nostro regime fascista? O sono sempre stati messi a tacere per opportunità politiche e ci siamo nascosti dietro il detto “italiani brava gente”?
Titolo: Finalmente ci hai trovati
Autore: Edgar Selge
Traduzione: Angela Ricci
Editore: Carbonio edizioni
Pagine: 272
Pubblicazione: 3 maggio 2024
Ti è piaciuto questo articolo? Dacci una mano! Il tuo aiuto ci consente di mantenere le spese di questa piattaforma e continuare a diffondere l'arte.
L'associazione si sostiene senza pubblicità ma soltanto con le tessere associative e l'impegno dei soci.
I Link verso i canali di vendita sono inseriti al solo scopo di agevolare gli utenti all'acquisto.
Sottoscrivi la tessera associativa con una piccola donazione su PAYPAL
Oppure puoi offrirci un caffè.