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Se a Molly Bloom fosse stato chiesto di interpretare Maria di Nazareth, ecco che sarebbe venuto fuori un monologo così potente e struggente...
Recensione di Agata Spinelli
Un quasi monologo, quello di Maria in Si vede che non era destino di Daniele Petruccioli, che ci racconta la sua vita a partire dal momento in cui a 14 anni scopre di essere incinta, e va avanti fino al giorno in cui proprio suo figlio, Ieshua, viene condannato a morte e giustiziato.
Una bambina-madre, dunque, che non ricorda, non sa come sia potuto succedere: Maria prende l’incantesimo, soffre di crisi di immobilità e forse durante una di queste crisi qualcuno ha approfittato di lei, ma non ne è sicura, non capisce. Che sia panico, epilessia o catatonia, lei lo chiama argento. È l’argento che sprigiona dalle cose e placca il mondo, che annichilisce. L’argento che toglie il respiro e fa di ogni oggetto un sasso colorato, non vivo, in cui deve esserci stato uno scampolo di vita tanto tempo fa. E poi Maria vede e sente bambini che nessun altro vede, piccoli angeli intorno, che giocano e ridono o a volte solo respirano. Una donna malata o forse solo spaventata, che trova in Giuseppe un uomo pronto ad amare lei e suo figlio, e con il passare del tempo, e dei paesi in cui la famiglia andrà a stare, diventerà sempre più forte.
Il suo monologo viene interrotto due volte, da altre due figure femminili; la prima è la voce di Elena, quando Ieshua ha 11 anni e la famiglia sta per lasciare l’Egitto, per far ritorno a Gerusalemme, dove non saranno più profughi. Elena è una donna ateniese a Menfi, non è una revanscista come sospetta Giuseppe, e fa da seconda madre al bambino, insegnandogli il greco. La seconda volta invece tocca a Maria di Magdala: Ieshua è ormai un uomo adulto, un’icona, e vive circondato dai followers (nel testo, seguaci). La Maddalena descrive sia lui che sua madre come esseri dotati di una molteplicità vibratile e inquietante, che ha qualcosa di animale e di roccioso, di solidamente minerale e allo stesso tempo mobilissimo.
Un piccolo gineceo narrante, dunque, composto di tre donne voraci e feconde, che combattono il patriarcato con la loro voglia di imparare, che le porta pian piano oltre il tempo. Un gineceo in cui però la vera protagonista, indiscussa, è proprio la lingua, ogni singola parola scelta, oltre il loro tempo. Quand’è infatti che accade la vicenda che leggiamo? 2000 anni fa oppure nell’ottocento o sta accadendo ai giorni nostri, con la guerra in corso, i flussi migratori e la dipendenza da social network? Accade sempre, continua ad accadere perché tutto il tempo del mondo, è sulla pagina ora, grazie a una lingua che non è creata dalla filologia, ma come Maria ha una natura molteplice e solidamente minerale. È un linguaggio inesistente – scrive Petruccioli, quando traduce i pensieri delle sue protagoniste – dove tutto esiste contemporaneamente, se ripieghi il tempo, e tutto si avvicina e ti sussurra. Così questo romanzo riesce a ripiegare il tempo, per crearne uno immaginario in cui le epoche si incontrano e si fondano. Bisogna guardare alle parole come oggetti, spiega ancora l’autore, e non come passaggi. Ogni parola è un sasso colorato appunto, non vivo, come i bambini che solo Maria vede: non vivi, ma in cui qualcosa tanto tempo fa è vissuto, e ora sprigiona il suo argento, il suo fulgore e ci incanta.
Nulla da dire sul finale, è noto a tutti, tranne che è il modo in cui è raccontato a renderlo così vibrante e monolitico, argenteo.
Autore: Daniele Petruccioli
Titolo: Si vede che non era destino
Casa editrice: TerraRossa
Pagine: 206
Data di pubblicazione: Marzo 2023
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