Affrontare la ricorrenza della morte di Kurt Cobain, senza scadere nella retorica e nella banalità, non è impresa facile. Diventa ancora più complicato se chi si trova a doverne parlare vedeva nel leader dei Nirvana un vero e proprio idolo.
Ricordo perfettamente quella mattina 5 aprile del 1994: le televisioni italiane già rimbalzavano la notizia del ritrovamento del cadavere di Cobain e l’incredulità lasciò presto il posto a un dolore, per quanto infantile, autentico e profondo.
A quasi trent’anni dalla sua scomparsa, molti si ostinano a ritenere che la vita, eccessiva e autolesionista, e la sua giovane e tragica fine siano il motivo principale della considerazione postuma che gli viene riservata.
Possibile che il ragazzo di Aberdeen sia ricordato solamente perché morto tragicamente dopo essere stato logorato dal suo stesso successo? Certamente la morte suicida di una rockstar all’apice della carriera ha contribuito a mitizzare la sua figura, il motivo principale che però fa sì che ancora oggi Cobain sia ricordato è lo stesso che lo portò ad avere un successo planetario: la musica.
I Nirvana, fra la fine degli anni ’80 e la prima metà dei ’90, furono i portabandiera del grunge, quel movimento che sconvolse la discografia mondiale. Vero è che non furono dei pionieri, gruppi come i Sonic Youth avevano già aperto la strada a nuove sonorità ma Cobain con i Nirvana è riuscito a portare ai vertici delle classifiche mondiali la sua musica fatta di sonorità acide e spigolose. Dopo l’esordio cupo e a tratti paranoico con "Bleach" (1989, SubPop Records), i Nirvana sorprendono tutti con "Nevermind" (1991, Geffen). Conquistano la vetta delle classifiche, "Smells Like Teen Spirit" diventa un vero e proprio inno per un’intera generazione e Cobain dimostra di possedere una dote, inaspettata per tutti, che pone i Nirvana una spanna sopra a tutti gli altri gruppi di quel periodo: un senso della melodia eccezionale che fa di "Nevermind" un disco praticamente perfetto.
Una pietra miliare della musica che influenzerà tutti quelli che verranno dopo.
Il successo è immediato e così travolgente da distruggere tutto segnando l’inizio della fine, in una discesa rapidissima e inarrestabile. Dalle canzoni di Cobain scompare la gioia, tutto torna ad essere tetro nel sound, nei testi. Riemerge un disagio interiore, che accompagna il frontman dei Nirvana fin dall’adolescenza. Anche se può sembrare paradossale, è questa la chiave del suo successo: aver incanalato le angosce della sua personalità, fragile e discutibile, in qualcosa di bellissimo e irripetibile permettendo a milioni di persone di riconoscersi nelle sue canzoni.
Ma come dicevamo, la strada che portava alla fine era stata oramai imboccata e l’epilogo che molti si aspettavano venne annunciato al mondo con la pubblicazione di "In Utero", mettendo la parola fine ad una delle pagine più intense della musica.
Tutto il resto è storia, fatta di recriminazioni e considerazioni spesso inutili: tra chi cerca di giustificare e chi si ostina a non capire il gesto estremo di un ragazzo che come tanti non ha retto.
Sarebbe meglio concentrarsi su quello che rimane, sulle sue canzoni che ci raccontano più di mille documentari, la personalità di Cobain, quelle stesse canzoni che lo hanno reso immortale.
Resta "In Utero", ultimo album bellissimo e straziante che inizia con la voce triste di un ragazzo di ventisette anni che si definisce annoiato e stanco e che finisce chiedendo scusa, forse a tutti, forse solo a se stesso.
Ascoltate. Se non capirete, sarò felice per voi.
© Luca Cameli