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Devo ammetterlo, appena mi è caduto l’occhio su “Solstizio”, album d’esordio de I Botanici in uscita il 7 aprile per Garrincha dischi, ho avuto un’idea ben precisa di quello che avrei poi ascoltato.
Solstizio. I Botanici.
Son bastate due parole per attivare subito quell’immaginario fatto di boschi, spiritualità indigena, richiami alla natura e all’esoterismo, di folk che sa di terra e di notte. Un immaginario certamente coadiuvato da quella tendenza musicale contemporanea che fa del nu folk e delle sperimentazioni acustiche la nuova leva cantautoriale.
Niente di più sbagliato. D’altronde si sa, non si può giudicare un libro dalla sua copertina.
Il debutto discografico di questi quattro giovani ragazzi di Benevento è quanto di più lontano ci possa essere dal bosco e dalla spiritualità, un richiamo alla terra c’è ma a quella terra che si alza polverosa a coprire il sudore e le note durante il pogo selvaggio che si scatena in un concerto punk rock.
Il roster di Garrincha dischi, tra le etichette più note in fatto di indie italiano, deve avermi fuorviata non poco, conducendomi sino alla domanda “Cos’è l’indie italiano? Dove sta andando?”
Ora, non è certo questa la sede per creare un dibattito sociologico-cultural-musicale sui movimenti underground del nostro Paese. Non ho intenzione di annoiarvi, il weekend alcolico è ancora lontano, né tantomeno si può cominciare un discorso del genere partendo dal primo album di un gruppo emergente.
Per cui cito solo il mio personale Dio Manuel Agnelli per spiegare in quattro parole la mia idea di indie italiano:
“È il vostro conformismo da anticonformisti che io non sopporto”.
Parto dalla precisa convinzione che tutto ciò che rientra nel termine “underground” afferisca alla ricerca interiore, alla sperimentazione, alle proprie radici sonore – o artistiche in senso lato – sulle quali costruire un’identità, come un albero che dalla terra trae il nutrimento ma che nella parte “visibile” è condizionato dai fattori climatici esterni. Parto dalla precisa convinzione che essere indipendenti non abbia niente a che vedere con il mainstream, non tanto per una questione economica, di promozione e distribuzione, quanto per una questione esclusivamente sonora.
Indipendenza è individualità, non è un caso che abbiano la stessa radice lessicale. Se negli arrangiamenti di ogni nuovo gruppo devono esserci un banjo, un battito di mani, quelle melodie catchy e quel “ohh ohh ohhh” che fanno tanto villaggio vacanze estivo in Salento, quella lamentela cinico-paranoica sulla società-ohcheschifolasocietà e sugli amori durati il tempo di una whatsappata, allora tutta l’individualità viene a mancare. E così l’indipendenza.
Nel caso de I Botanici il discorso è più o meno simile.
Non ci sono banjo ma chitarre tirate in overdrive, non ci sono “oh oh ohhh” da falò sulla spiaggia ma voci ruvide come le urla che esplodono durante una sbronza, non è il mondo dell’indie folk quello di riferimento ma un mondo fatto di palchi, di rabbia, di distorsioni, di melodie cicliche, urlate e ripetute quasi fossero una cantilena, di amori finiti.
Il punto è che la rabbia e gli amori finiti in “Solstizio” sono gli stessi descritti nella stragrande maggioranza delle canzoni indie degli ultimi cinque anni, a partire dai testi de L’Orso, de Lo Stato Sociale, dei Gazebo Penguins, dei Fast Animals and slow kids e via discorrendo. Gli stessi ma con meno ricercatezza linguistica rispetto alla raffinatezza che ha contraddistinto le prime produzioni de Lo Stato Sociale (che al disco de I Botanici prestano Alberto Guidetti in veste di produttore), con meno ricercatezza sonora rispetto al mondo armonico, alla pienezza e alla sporca genuinità del disco d’esordio di Motta o dell’ultimo album del Management del dolore post operatorio.
Insomma dai, “io non credo si possa fare di più quando il buio ritorna ancora su” (“Io non credo”) e “Parlami, ho il cuore in gola/Ti prego ascoltami, anche se è lunedì” non possono certo essere annoverate tra le frasi della poesia musicale italiana più sofferte, studiate, masticate e sputate catarticamente fuori.
La costruzione delle canzoni è sempre la stessa, ritmo in 3/4 in pieno stile punk pop, intro tirati, bridge con l’overdrive spento, ritornello urlato e così via fino alla fine del pezzo. Una fine che a volte si fatica a capire persino dove sia, le prime tre tracce dell’album scorrono via lisce e in blocco senza che si riesca a percepire dove cominci una canzone e finisca l’altra, tanto sono uguali.
L’intro della seconda traccia, “C’avremo tanto da fare”, richiama alla mente addirittura “The kids aren’t alright” dei The Offspring, la sequenza degli accordi è molto simile.
Si percepisce subito dove i Botanici vogliano andare a parare e da che mondo stiano pescando. Devono averne ascoltato parecchio di punk pop e di emo pop prima di imbracciare la chitarra. Green Day, My Chemical Romance, The Offspring, Sum 41…il tutto mixato con quel tocco di italianità punk pop alla Finley per rendere il “pastone” ancora più commerciale, se possibile.
Ora mi chiedo: ne avevamo bisogno? Per quello che mi riguarda, no.
Questo tipo di sonorità andava bene negli anni ’00, non nel 2017 – per quanto il fenomeno punk pop non si sia ancora del tutto esaurito.
Un nome come “I Botanici” fa presagire rispetto per le radici ma insieme ricerca e voglia di provare, di buttarsi, data anche – e soprattutto – la giovane età del gruppo beneventano.
In “Solstizio”, invece, la sperimentazione viene completamente a mancare, con il risultato finale che l’intero disco sa di vecchio, già sentito, superato.
Tutto da buttare, dunque? No, certo che no.
I nostri hanno già la padronanza sonora di chi ha calcato centinaia di palchi e riescono a costruire frasi melodiche capaci di rimanere in testa, utile per essere urlate dai fans del momento. Canzoni come il singolo “Magari sì” e la finale “Io non credo” hanno quel giusto appeal per catapultare I Botanici nei festival e nei locali del circuito indie di tutta Italia, segnando già un destino fatto di concerti nei parchi, baci sudati, dediche sulle bacheche dei social e foto hipster con la frase della canzone del momento su sfondo tramonto/nebbia/mare d’inverno con faro.
“Solstizio” è un disco che suona bene ma risulta troppo omogeneo, vale bene per una bevuta e per quei 40 minuti in cui sale la botta di nostalgia per le gambe che riuscivano a resistere alle 24 ore no stop di salti nei festival estivi.
La giovane età de I Botanici sicuramente avrà influito sulla mancanza di esperienza immersiva nel mondo sonoro di ciascun componente, la base per approfondire un discorso stilistico individuale c’è e al gruppo auguro di raggiungerlo con il tempo.
Ma se l’obiettivo già da ora è fatto di palazzetti pieni, dediche sulle bacheche di Facebook e foto con “nome di filtro a caso” e frase di una canzone, allora davvero chapeau.
Canzoni da ascoltare: “Magari sì”, “Io non credo”
Album: Solstizio
Artista: I Botanici
Etichetta: Garrincha dischi
Tracce: 8
Uscita: 7 aprile 2017
Genere: Punk pop, indie rock
© Isabella Di Bartolomeo