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“Wisteria Lane ci ha abituati male!” — penso tra me e me alla vigilia dell’ultimo episodio di “Safe”. Poteva essere un po’ come entrare nella controparte britannica di Fairview, la ridente cittadina delle cinque casalinghe disperate con un vicinato pettegolo e tanti segreti da mantenere, che ci han tenuti incollati per 180 episodi. E invece, sebbene questo thriller sia ambientato in un sobborgo apparentemente tranquillo, ricolmo di vicini che non la raccontano giusta all’alba della sparizione di Jenny — la figlia maggiore del protagonista interpretato da Michael C. Hall (“Dexter”, “Six Feet Under”) — l’originale Netflix in otto parti ti abbatte uno sbadiglio dopo l’altro.
Tutto si svolge in una manciata di giorni, tantoché l’intera sceneggiatura poteva essere probabilmente salvata da un editing accorto e prodotta sotto forma di film. Ma per otto episodi siamo invece di fronte ad un padre che corre a destra e a manca per ritrovare la figlia scomparsa, spalleggiato dal suo collega nonché migliore amico ex-commilitone, mentre la polizia sembra essere più presa dalle proprie vicissitudini personali e familiari che dalle indagini. Questo mix fa sì che il ritmo della serie non solo scorra in maniera incostante ma che questo risulti talora fuori proporzione rispetto a quanto accade. Si alternano come appesi ad un pendolo le concitate scene d'azione, inutilmente caricate di pathos e adrenalina, e momenti in cui sulla scena viene lasciato spazio alla rappresentazione del dolore.
Ad aggiungere un po’ di sapore alla vicenda probabilmente ci doveva pensare la tragicomicità della famiglia volgarotta e arricchita — anglo-burina, mi azzarderei a proporre — che cerca di nascondere il corpo di uno degli amici della figlia trovato esanime nella piscina. Ma al di là dei momenti che isolati dal contesto potrebbero anche risultare divertenti, l’esecuzione appare impacciata e poco incorporata col tono della narrazione.
Le altre pedine della storia appaiono come slegate tra loro, al punto che nella trama non si raggiunge mai un livello di organicità tale da porre l’audience in contatto diretto con questi elementi secondari, certo, ma ugualmente essenziali ai fini della storia e ad inquadrare questi come pezzi più o meno importanti. Piuttosto ogni volta, scaraventati sullo schermo, essi consegnano allo spettatore il pezzetto di informazione che devono per poi sparire nell’oblio.
Pur aggiungendo quel colpo di scena interessante — ingrediente che non deve mancare per la buona ricetta di una pellicola dal retrogusto thriller — il finale sembra troppo poco per rivalutare un'intera serie. Gli indizi sulla colpevolezza sarebbero potuti essere meglio spalmati lungo tutto l'arco narrativo, che invece si ritrovano convogliati ed appiattiti negli ultimi 45 minuti. Persino le estese scene di flashback, quasi come un aiuto allo spettatore che comprensibilmente potrebbe aver dimenticato dettagli necessari a chiudere il cerchio della storia, risultano in ultimo incredibilmente pedanti.
Quando pensavi che l’accento inglese di Hall sarebbe stata la parte peggiore di tutta la serie, vieni sorpreso dalla sceneggiatura di “Safe”, che brucia lenta e scoccia presto. Ad averlo saputo prima avrei potuto gentilmente chiedere a Jenny di farmi sapere con un messaggio quando aveva intenzione di tornare a casa. Nel frattempo avrei spento la luce, ché se proprio era il caso che dormissi, avrei preferito farlo comodamente nel mio letto.
La prima stagione di “Safe” è disponibile nel catalogo di Netflix.
© Stefano Pastore