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Quando Netflix ha lanciato sulla sua piattaforma di streaming “The OA”, non c’ho pensato due volte a premere sul pulsante play. Fino a quel momento il colosso americano delle serie si era rivelato una garanzia, almeno per ciò che riguarda la fantascienza. Devo ammettere che con una certa pesantezza d’animo mi accingo a scrivere questa recensione, avvertendo un certo senso di tradimento.
Sono assolutamente consapevole del fatto che molte testate giornalistiche e non, italiane ed estere, hanno titolato le proprie recensioni con elogi al nuovo grande successo di Netflix, ma io vorrei pacatamente ed educatamente dissentire.
Questa recensione di “The OA” contiene spoiler. Se non hai visto tutti gli episodi, prega la tua divinità preferita e danza verso l’uscita di emergenza più vicina.
Partiamo da ciò che c’è di buono. Ciò che inizialmente mi ha attirato verso questa serie è stato il trailer e, una volta iniziata, la sua premessa. Una donna viene filmata in procinto di buttarsi da un ponte. Grazie a questo video caricato su Youtube, Prairie Johnson viene identificata dai genitori. Era cieca e scomparsa sette anni prima di potersi ricongiungere con i suoi genitori adottivi, che finalmente riesce a vedere dopo aver inspiegabilmente, solo per coloro che non credono o non hanno ascoltato la sua storia, riacquistato la vista.
Altro punto a favore di questa produzione è la performance di Brit Marling, la protagonista nonché co-creatrice. Ho trovato assolutamente convincente la sua interpretazione da donna cieca e, in particolare, un personale plauso lo riserverei alla scena in cui la protagonista, che ancora non ha riacquistato il senso della vista, si accorge di essere stata tratta in inganno e di essere detenuta nel bel mezzo del nulla. È palpabile il dolore di questa ragazza che si rende conto di essere tanto prigioniera della sua cecità che della sua cella.
Sfortunatamente le critiche che mi trovo a rivolgere ai creatori della serie Brit Marling e Zal Batmanglij, almeno per quello che mi concerne, di gran lunga surclassano quanto di buono la sceneggiatura e la recitazione degli attori coinvolti in questo progetto hanno da offrire.
"The OA" è poco originale o almeno non lo è a sufficienza. Lo dichiaro con pochi giri di parole. Lo scienziato che tenta di studiare umani dotati di particolari doni sovrannaturali, il viaggio verso un mondo parallelo, outsider che decidono di unire le forze affinché si realizzi il compimento della missione sono le parti che compongono la struttura principale della storia e, a ben vedere, questi stessi elementi sono abbastanza comuni, facilmente impiegati nelle serie di fantascienza e del soprannaturale, basti pensare che persino “Stranger Things” e “Sense8”, cavalli di battaglia di Netflix di questo genere, ne fanno un uso preponderante. Dal mio punto di vista il problema è da imputarsi al fatto che “The OA” non dà abbastanza risalto a ciò che rende unica la storia, a favore di espedienti narrativi sfruttati in maniera trita e ritrita.
“The OA” non ha inoltre il giusto rispetto per i tempi narrativi: la tempistica con cui viene spiegato chi è Prairie Johnson e il perché dei suoi comportamenti talora incomprensibili è a mio giudizio totalmente fuori proporzione. Da spettatore verrebbe naturale presumere che, ad un certo punto chiusa tutta la fase di presentazione e di scoperta, i personaggi inizino con la vera missione, che in un qualche modo la storia, anziché seguire il passo del gambero, vada semplicemente avanti verso la sua naturale evoluzione o conclusione e concretizzi ciò che Prairie Johnson si è prefissata di fare dopo essere fuggita dalla prigione nella quale era stata rinchiusa: salvare Homer.
Invece no. La scena finale vede i cinque reclutati dalla protagonista fare un ballo con le cinque mosse divine nel tentativo di fermare un killer entrato nella scuola in cui questi erano per mietere vittime. Non si sa se effettivamente tali danze insegnate da Prairie sortiscano qualche effetto sull’assalitore se non quello della sorpresa, che consentono infine di disarmare il killer. Trovo, inoltre, di cattivo gusto nei confronti di un paese come gli Stati Uniti in cui il problema delle armi da fuoco costituisce una delle maggiori piaghe e in generale di tutti i paesi vittima di attacchi terroristici assolutamente devastanti, costruire una scena in cui un uomo armato assalta una scuola e il tutto viene risolto in maniera non solo completamente fuori da ogni logica — cosa che il genere della serie potrebbe pure permettere di perdonare — ma totalmente ridicola.
Ad ogni modo il finale fallisce totalmente nel rispondere a quelle domande che lo spettatore aveva sin dall'inizio: Homer e gli altri che fine hanno fatto? Ma il viaggio verso un’altra dimensione funziona davvero? Il dottore ha vinto, appropriandosi con la violenza delle mosse divine? Ad oggi Netflix ancora non ha garantito il rinnovo della serie, quindi c’è la possibilità che la storia rimanga di fatto monca.
Otto episodi in cui la premessa è ben architettata, il racconto è pompato, si carica di aspettativa senza, in definitiva, avere una vera e propria sostanza e la trama finisce con il ripiegarsi su sé stessa in un finale senza senso.
Per definire “The OA”, posso solo utilizzare le parole di Karen Walker (celebre personaggio di “Will & Grace”): “tesoro, sei divertente come un orgasmo mancato”.
La prima stagione di “The OA” è già in streaming su Netflix.
© Stefano Pastore