+++++
“Sulla mia pelle” racconta una storia che tutti, bene o male, purtroppo conosciamo.
Dico purtroppo perché è una di quelle storie che non vorremmo sentire mai.
Sono una trentenne cresciuta in una provincia di campagna, nel ferrarese. Nel 2005 avevo diciotto anni: la stessa età di Federico Aldrovandi, studente ferrarese morto dopo una colluttazione con quattro poliziotti. Ricordo gli striscioni fuori dalle università, i cartelli, la voglia di sapere cosa era successo davvero. La fame di giustizia.
Nel 2009 di anni ne avevo ventitré quando i quattro poliziotti che hanno ucciso Federico sono stati condannati.
Giusto il tempo di passare un’estate a gridare “finalmente giustizia è stata fatta” che i media hanno travolto ancora una volta il Belpaese e solo un nome è risuonato in tutta l’Italia: Stefano Cucchi.
Sono passati dieci anni e il regista Alessio Cremonini ha raccontato la storia di Stefano in “Sulla mia pelle”, pellicola realizzata da Netflix e selezionata come film d’apertura della 75° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
Il film racconta gli ultimi sette giorni del trentunenne romano, morto mentre era in custodia cautelare per accusa di spaccio.
È tutto estremamente doloroso nonostante la scelta del regista di non mostrare in maniera diretta la violenza subita da Stefano. L’interpretazione magistrale di Alessandro Borghi riesce a penetrare fino alle ossa dello spettatore che condivide la lenta agonia di quella ultima e terribile settimana.
È difficile rimanere “imparziali” davanti a una vicenda del genere. La fiducia nelle giustizia scivola via di minuto in minuto ed è quasi impossibile mantenere la calma senza inveire contro le forze dell’ordine, ma il film è talmente ben strutturato e neutrale che riesce a non santificare Cucchi e non demonizzare le “guardie infami”.
Il lavoro di Cremonini è così ben bilanciato che di questa torbida e brutta vicenda riesce a riportare solo i fatti così come sono emersi. Stefano non era un santo e non tutti i poliziotti sono assassini. Questo è quello che resta dalla visione, insieme a tanta rabbia e tanta tristezza.
Nessuno merita di soffrire e morire così.
“Sulla mia pelle” ci ricorda che la cosa più importante è seguire l’insegnamento della famiglia Cucchi che, seppur stremata da un figlio a volte troppo turbolento, non ha mai smesso di lottare e di credere nella giustizia nonostante abbiano potuto rivedere il loro figlio e fratello soltanto una settimana dopo l’arresto, quando ormai era solo un corpo steso sul tavolo gelato di un obitorio.
Personalmente ci metterò un po’ a digerire questa visione tanto dolorosa quanto necessaria.
Quello che farò sarà tramutare un po’ di rabbia nella speranza che un giorno non ci sarà più nessun caso Cucchi.
© Giulia Cristofori