Tanti dubbi e poche ma solide convinzioni, questo è il mio credo. E sono sempre più convinto che in qualsiasi attività artistica siano necessarie due qualità: una buona storia (o una buona musica, un soggetto da ritrarre) e passione, tanta. Tutto il resto è benvenuto ma non necessario. Ne riscontro la prova sempre più spesso ascoltando musicisti sconosciuti che suonano negli angoli delle strade o che si fanno conoscere attraverso il web oppure illustratori, disegnatori che, sempre attraverso la rete rendono pubblici i propri lavori.
La stessa cosa succede nel cinema: se hai una buona storia, la voglia di raccontarla e un gruppo di amici che ti segue, puoi impiegare sei anni per produrre un film, spendere un budget ridicolo e realizzare un’opera che non ha nulla da invidiare ai colossal hollywoodiani.
È questo il caso di "Oscar", secondo lungometraggio del regista Dennis Dellai che torna ad emozionarci dopo "Terre Rosse".
Oscar Klein è un giovane musicista ebreo al confino ad Arsiero, un paese dell’Alto Vicentino. Il suo talento lo scopriamo nei primi minuti, quando una festa di paese viene interrotta dall’arrivo di due aerei militari. La sirena invita tutti a scendere nel rifugio, la piazza resta deserta, con gli strumenti a terra e gli spartiti che svolazzano. Lui passa di lì, vede la tromba, la tentazione è forte e inizia ad intonare Summertime, un pezzo che ci accompagna numerose volte nel film.
Grazie alla musica conquista la simpatia di Vittorio e della sorella Emma, figli del podestà, ed entra a far pare della banda del paese diretta dal parroco don Franco. Dopo l’8 settembre le cose cambiano, arriva l’occupazione tedesca ed Oscar e la sua famiglia sono costretti a fuggire, grazie all’aiuto di Emma, il parroco e una rete di partigiani.
Il regista ama definire il suo come un “cinema di comunità” perché in molti hanno partecipato a questo progetto, gratuitamente e con quello che potevano offrire: la comparsata, un aiuto sul set o nel trasporto dei materiali, la realizzazione delle scenografie, la fornitura di oggetti da collezione, divise e vestiti dell’epoca, nonché le armi. Un film low budget che ha coinvolto quasi mille comparse, girato nel tempo libero, ovvero la domenica perché non vivendo di cinema tutti hanno un altro lavoro che li impegna. Un film che narra una storia vera, con qualche licenza dovuta ad esigenze narrative e la cui realizzazione è un’altra storia a parte.
“Cinque anni di riprese, un anno di post produzione. In tutto questo tempo abbiamo visto i figli crescere” ha detto il regista dopo la proiezione.
Numerosi sono gli aneddoti che rendono questo film una storia nella storia, perché quando si hanno pochi soldi bisogna ingegnarsi: se ti serve un treno ferroviario per girare una delle scene più complesse e spettacolari, non puoi chiederlo a Trenitalia, il noleggio ti costerebbe quanto l’intero film. Però, se casualmente vieni a sapere che un prete della Bassa Veronese (per chi non lo sapesse, secondo il proverbio i veronesi sono tutti matti, a modo loro e in modalità diversa) tiene in giardino sei vagoni dismessi da Trenitalia diventa logico muoversi, andare a spiare oltre le siepi, consultare sacrestani e perpetue. E alla fine questo prete lo trovano ed è vero quanto si dice, nel giardino non tiene Biancaneve e i Sette Nani ma proprio i vagoni di un treno, che gentilmente mette a disposizione.
Curiose sono state anche le difficoltà per ottenere il visto della censura, giudizio più volte respinto non per la qualità o i contenuti del film ma perché non erano rispettate sciocchezze come la lunghezza dei titoli di coda, inevitabilmente lunghi dato il numero di partecipanti e comparse che avevano lavorato gratuitamente e la troupe intendeva ringraziare.
Un film in cui ci sono omaggi a registi illustri: la sagoma di Vittorio e la storia che gira intorno al disco di Summertime ricorda il trombettista amico del "Novecento" di Tornatore; la bimba con il cappotto rosso richiama "The Schindler List". Citazioni che il regista non nasconde, anzi, le trasforma in un omaggio ai grandi del cinema.
Una storia che commuove, che ci fa capire come siamo tutti uguali e tutti diversi e basta poco per diventare traditori o eroi, nonostante gli sforzi di don Franco, che ai musicisti della banda diceva: “Qui siamo tutti uguali, la musica ci unisce”.
Un desiderio che nel film si è infranto. Nella realtà invece, il trombettista ebreo Oscar Klein, diventato un jazzista di fama, suonerà insieme a Romano Mussolini, jazzista, figlio di colui che promulgò le leggi razziali.
Infine, un film che ti fa capire quanto una buona storia e tanta passione producono bellezza. Il resto è tutto trucco.
© Paolo Perlini