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Lo so. Questa recensione è in ritardo di almeno una carretta di mesi, eppure i tempi con cui pubblichiamo questo post sembrano essere in qualche maniera totalmente in armonia con il passo dei rilasci delle singole stagioni di “Sherlock”.
Lo speciale del 2016 ci ha lasciati un po’ sazi e un po’ affamati, proprio come quando ad un’ora dalla fine del pranzo di Natale, composto di dodici portate e più, sopravviene quella fame chimica che consentirebbe di trangugiare persino il paffuto zio Ernesto.
Ma andiamo con ordine. Vorrei innanzitutto fare due avvisi.
Primo. Questo articolo contiene spoiler. Se non hai visto le prime tre stagioni di “Sherlock” e/o “The Abominable Bride”, distogli subito lo sguardo, localizza l’uscita di emergenza più vicina e rimedia. Secondo. Se hai visto gli episodi di “Sherlock” in italiano, sospendi tutto, ti esorto sollecitamente a ripassarli in inglese, perché il doppiaggio italiano denatura i caratteri dei personaggi e la potenza interpretativa degli attori. Poi torna qui.
Iniziamo. Ero poco più che adolescente in un pomeriggio d’agosto, tuttavia mi ricordo bene la volta in cui mi approcciai al mio primo libro su Sherlock Holmes, il celeberrimo “Uno studio in rosso”.
C’era tutta questa descrizione dettagliata di come Watson, presentato da un conoscente, avesse incontrato Sherlock in quei laboratori di chimica dove l’investigatore conduceva esperimenti sul sangue umano e questi avesse stupito il dottore indovinando il suo passato con una sola fugace occhiata.
Spesso si dice che la trasposizione cinematografica di un libro non renda alcuna giustizia, ma in questo caso specifico, suppongo, la regola fa eccezione.
Quando ho visto lo speciale, mi è parso di rileggere quel libro. Sì. Perché questo episodio, in selezionate parti, l’ho trovato estremamente fedele al testo e alle sue descrizioni, cosa che mi ha divertito moltissimo e calato ancor di più nella trama di questa puntata che, peraltro, arriva in maniera del tutto inaspettata dai creatori di una serie che vede rivisitato il personaggio dell’investigatore privato e il suo universo in chiave contemporanea.
Libro e serie, questa in particolare, divergono. Non ci sono dubbi a riguardo. Tuttavia, rispetto a produzioni americane quale “Elementary”, che pure scaraventa Sherlock ai giorni nostri, ma in episodi dal carattere procedurale sciacquati e privi, a mio avviso, della necessaria fedeltà al personaggio originale, gli sceneggiatori della serie Mark Gatiss e Steven Moffat riescono sempre ad introdurre dei colpi di scena che rendono tradizionalmente coerente e contemporaneamente fresca la trama orizzontale.
Moriarty è morto. Oppure no? Alla fine della terza stagione l’acerrimo nemico di Sherlock aveva annunciato d’essere tornato, ma come è possibile se questi s’è inferto un colpo di pistola mortale proprio dinanzi ai suoi occhi?
Parafrasando ciò che l’investigatore stesso ha modo di dire all’interno dello speciale, egli ha bisogno di risolvere un mistero vecchio prima di poter affrontare quello corrente. E quindi Gatiss e Moffat utilizzano l’espediente dell’uso di sostanze stupefacenti e del sogno per consentire a Sherlock e allo spettatore d’avere accesso al suo castello mentale e porre fine al mistero.
Ambientato ai tempi della lotta per l’emancipazione femminile in una Londra vittoriana, che fa da magnifico sfondo, Sherlock e Watson sono chiamati a risolvere il caso di una sposa, Emilia Ricoletti, che si suicida in pubblico e poi torna dall’oltretomba ad uccidere, punendo quei mariti e in generale quegli uomini che umiliano, sminuiscono, tolgono dignità alle proprie compagne di una vita.
Senza svelare come Sherlock e Watson arrivano a risolvere l’enigma, l’investigatore ha con questa esperienza onirica la possibilità di comprendere e convincersi fermamente del fatto che Moriarty, proprio come Emilia Ricoletti, deve essere necessariamente morto.
Il tocco finale, che secondo me aggiunge quel ‘quid’ in più a questo speciale, non è solo dato dal dondolio delle scene tra lo Sherlock moderno e lo Sherlock vittoriano, ma dall’ultima in cui l’investigatore del diciannovesimo secolo dice d’aver sognato un futuro con oggetti volanti e che pertanto costringe il pubblico a domandarsi quale sia il sogno e quale la realtà, sfumando infine su Baker Street e i double-decker.
Ad ogni modo, ciò che come sempre fa funzionare gli episodi è il duo composto da Sherlock e Watson. E non potrebbe essere altrimenti. Watson, in questa puntata, ma come del resto in tutte le altre, ha un duplice ruolo: da una parte consente allo spettatore di avere una finestra dalla quale timidamente scorgere il lato umano dell’investigatore, cosa che risulta particolarmente evidente nella scena in cui Watson porge a Sherlock domande sui suoi desideri e pulsioni. Dall’altra parte Watson si fa portavoce di ognuno di noi, si rende vicario di ciò che l’audience vorrebbe chiedere o imputare al suo amico. Senza il dottore, Sherlock potrebbe facilmente essere considerato alla stregua di un mitomane, certo, magari intellettivamente dotato, ma di cui si noterebbero unicamente i deliri di onnipotenza.
Lo speciale non delude, aggiunge un pezzettino alla trama orizzontale senza dar via troppo e nel contempo fa da perfetto ponte tra la terza stagione e la prossima, che speriamo ardentemente non sia l’ultima. D’altronde gli ingredienti di base sono ben controllati e sapientemente miscelati: quando è buona l’omelette, come si può sbagliare la frittata?
“Sherlock” ritorna con il primo episodio della quarta stagione il 2 gennaio su Netflix. Le prime tre serie sono già disponibili in streaming.
Felice anno nuovo a tutti!
© Stefano Pastore