Scritto da J.B. Fleming -
- Illustrato da Francesca Galeffi
OCTOR CONSULTING SRL
Era tornata la calma al diciassettesimo piano. Da sotto la mia scrivania non vedevo più ombre sulla moquette, ma solo il regolare sfarfallio dei neon. Dopo le urla, i passi di corsa e il rumore di mobili rovesciati, era rimasto solo un pianto sommesso a spezzare il silenzio. Veniva dalla stanza accanto alla mia.
Strisciai verso il muro di cartongesso.
«Ari, sei tu?» provai, ma controllavo a stento la mia voce. Mi era uscita stridula, tremante.
Il pianto si interruppe.
«Lara?».
Mi aveva sentito.
«Sei ferita? C’è qualcuno lì con te?».
Dopo un verso incomprensibile, mi rispose: «Sto bene, ma non c’è più nessuno qui…» altro piagnucolio. «Sono tutti scappati, o sono stati presi».
«Non muoverti, arrivo».
Da uno spiraglio riuscivo a vedere il corridoio vuoto. Ricoperto di fogli e tracce di sangue, ma privo di minacce apparenti. Presi un respiro e scattai.
Anche Arianna aveva trovato rifugio sotto la scrivania. La raggiunsi e mi sedetti accanto a lei. In cinque anni di lavoro, mai ci eravamo trovate così vicine. Ma ora era tutto diverso.
«Adesso ti porto fuori di qui», le dissi, abbracciandola.
«Come?».
Non ero preparata a dare una risposta, così la ignorai.
«Dobbiamo fare in fretta, ora che la piovra non è al nostro piano».
«Ma tornerà. L’ho sentita dire che devono eliminare altri 5 FTE nostro dipartimento, e al diciottesimo è già stata questa mattina».
Ricominciò a piangere sulla mia spalla. «Avevano detto che nessuno sarebbe stato licenziato» sentii tra i suoi lamenti, «che la Octor era solo un consulente esterno per “ottimizzare le prestazioni”».
Mi trattenni appena in tempo dal risponderle che essere divorati da una piovra alta quasi due metri non è proprio un licenziamento. Sarebbe stato un risparmio per l’azienda, se non avessero dovuto sostituire la moquette in tutti i corridoi. Il sangue secco è una macchia resistente.
«Ma perché non sono venuti ad avvertirci?».
«Perché alla Octor non importa quale testa salta, l’importante è far quadrare i conti. E lo sanno anche i nostri colleghi. Se ci avessero avvertiti e noi ci fossimo salvati, i consulenti sarebbero tornati a prendere loro».
A questo non avevo pensato, ma ora mi rendevo conto che lo stesso ragionamento poteva valere anche per noi due. Sopravvivere insieme era solo una delle opzioni. Ma c’era anche la possibilità di non collaborare, e dare in pasto l’altra in cambio della vita. Valeva per me e valeva per lei.
«Ok, ora usciamo di qui e andiamo agli ascensori, al piano terra ci faranno uscire, no?», dissi, prendendo la mia decisione.
«E se avessero messo qualcuno a impedircelo? Per catturarci più in fretta».
«Che alternative abbiamo?».
«L’elicottero al venticinquesimo oppure le scale d’emergenza».
«Perché tu sapresti pilotare un elicottero?».
Tacque, ma lo presi per un sì. Forse era solo il suo modo di garantirsi che non la abbandonassi.
Mi alzai per prima e le offrii una mano per aiutarla. Tremava, ma riusciva a camminare.
Uscendo dal cubicolo di Arianna, per sbaglio avevo buttato un occhio nella stanza di fronte a noi e avevo riconosciuto dall’abbigliamento il corpo decapitato di una cara collega.
«Pensare che la invidiavo un sacco. Era sempre impeccabile, sempre con i tacchi… ora ringrazio di non essere la tipa. Almeno con gli anfibi posso correre,» avevo cercato di sdrammatizzare, e da lì in poi avevamo entrambe tenuto lo sguardo basso. Percorremmo il corridoio facendo slalom tra le pozze di sangue. Arrivate agli ascensori, lei si fiondò sul tasto più vicino, lo stesso fece con gli altri. .Camminava avanti e indietro, tarantolata.
«Consumerai il pavimento», sbottai.
Uno dei triangoli si illuminò, emettendo un ping. Poi se ne illuminò un altro, e un altro ancora. Arianna si fermò e si voltò verso di me.
«Su o giù?» chiesi.
«Potremmo anche dividerci», suggerì lei.
«Come nei film horror di serie B…».
Non feci in tempo a scusarmi per l’ennesima battuta sarcastica, che uno dei dieci ascensori davanti a noi si aprì. Ma non era vuoto. L’enorme mollusco fece capolino e, con un disgustoso rumore di ventose, si aggrappò alla parete metallica delle porte scorrevoli, alzandosi da terra e preparandosi a balzare in avanti.
«Via!».
Presi Arianna per un braccio. Raggiungere gli altri ascensori era impossibile, ci divideva la creatura viscida.
«Alle scale antincendio» urlai e iniziammo a correre.
Imboccammo un altro corridoio, più stretto, cosparso di liquido maleodorante e impronte di sangue. Più volte scivolammo, incalzate dal rumore dei tentacoli che si appiccicavano alle superfici lisce e poi schioccavano staccandosi. Non guardammo mai indietro.
Da sola mi sarei arresa molto prima, mentre i pensieri intrusivi facevano capolino nel mio cervello. C’era stato un tempo, ormai sembravano ere geologiche prima, in cui la sera perdevo tempo a guardare video di piovre che sguazzavano e si infilavano nei pertugi più assurdi. Non potevo immaginare allora che un giorno sarei arrivata a temerle.
«Corri più veloce, Lara. Ci prenderà», mi aveva urlato Arianna.
I tonfi del mostro erano sempre più vicini.
Ci gettammo sulla maniglia antipanico. Il peso dei nostri corpi fece scattare l’apertura. Non avevamo ancora deciso il piano di fuga. Salire otto piani o scenderne diciassette.
Guardai giù dalla tromba delle scale. Uno schieramento di uomini della Octor presidiava la base del grattacielo. Bastò uno sguardo d’intesa e prendemmo a salire due gradini alla volta.
Avevamo soltanto due rampe di scale di vantaggio quando la porta da cui eravamo uscite si spalancò e l’odioso schioccare dei tentacoli ricominciò a seguirci.
«Un Full Time Equivalent in eccesso», sentimmo dire alla piovra gigante, con il suo tono grottesco e surreale.
Aggrappandoci al mancorrente, facendo appello a quella poca forma fisica che un lavoro 9-18 alla scrivania ci aveva concesso, corremmo, incuranti della pioggia che rendeva ogni gradino una trappola mortale, fino al venticinquesimo. Alle nostre spalle tonfi e rumori simili al passaggio di un dito su una porcellana umida. Anche per il sicario della Octor il metallo bagnato si era rivelato un problema.
Davanti a noi, ecco l’elicottero aziendale.
«Dicevi sul serio prima?».
«Dubitavi?».
Le sorrisi. Ci eravamo fermate un secondo a riprendere fiato. Poi Arianna si precipitò verso il portellone.
«No, no, no!» urlò, prendendolo a pugni.
Affaticata la guardai cercando una risposta, la milza in rivolta. E mentre pensavo che non correvo così dall’ultimo test di Cooper alle superiori, quindi almeno da quindici anni, i tentacoli di quell’essere immondo mi afferrarono. Prima una gamba, poi le braccia. Sentivo Arianna continuare a urlare no. Poi caddi a terra, sbattendo la faccia sul cemento.
La creatura mi sollevò in aria, lentamente, fino ad arrivare all’altezza della sua bocca. Mi tenne così per qualche istante.
Tentai di dire qualcosa, nonostante il dolore: «Mi…mi… mi licenzio!» e in qualche modo ci riuscii.
La piovra si fermò.
Mi ripose a terra e strisciò via, da dove era arrivata.
«Riduzione del personale completata», la sentimmo borbottare, mentre la pioggia non smetteva di cadere sui nostri corpi.
© Un racconto di J.B. Fleming - Illustrato da Francesca Galeffi - Editing di Chiara Bianchi
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