Come raggi di luce che accecano | Racconti Indigeribili

Come raggi di luce che accecano | Racconti Indigeribili

Scritto da Mathilde Tulla
 - Illustrato da Sofia Casavecchi -


Come raggi di luce che accecano

Città, stanze, claustrofobia. 
Un pugno chiuso è la misura di un cuore. Non credevo di avere un cuore così piccolo.
Nelle buie notti d’estate, ancora bambina mi mettevo in ascolto del fluire del mio sangue, contavo i battiti del mio cuore, l’orecchio premuto sul cuscino, un fiume che scorreva lento dentro il mio piccolo corpo dalla testa troppo grande. E non era come contare le pecore, il sonno non prendeva mai il sopravvento e la mattina seguente i miei occhietti socchiusi parlavano di pensieri e di parole non dette, di pecorelle smarrite.
Trasparente agli occhi di mia madre. Non ero lì per lei che, lenta, voltava lo sguardo dall’altra parte, per non vedere.
Qual è la differenza tra una piccola donna e una donna piccola?
Dietro ogni giorno si nascondeva una notte di battiti. Governare il respiro, cosicché il mio cuore cambiasse il suo andare. Governare quel piccolo pugno.
Non avevo di meglio da fare.
Tapparsi le orecchie. Ascoltare il ritmo interno del corpo: come avvicinare un orecchio a una conchiglia per ritrovarci il mare.
Gli insegnanti chiamarono i miei genitori e fu solo mio padre a parlare con loro. Concludendo che avrei avuto bisogno di una visita specialistica.
«Ti portano da una strizzacervelli» disse una mia compagna di classe, «me l’ha detto mia madre. Dicono che ti manchi qualche rotella».
«Eppure con tutto quello spazio» (alludendo alle dimensioni del mio cranio) «non par vero!» chiosò l’altra. E furono risatine e sguardi smaliziati e cattivi.
Parlavano di me nelle loro case.
Non avevano di meglio da fare.
L’insegnante di religione, un giorno, si avvicinò furtiva, durante la ricreazione. Tutti erano impegnati a regalarsi spintoni e parolacce, mentre restavo inchiodata al mio posto, con un quaderno e una matita, disegnavo qualsiasi cosa mi venisse in mente.
Mi avevano detto che non sapevo disegnare, lo aveva persino confermato l’insegnante di arte e tecnica. Diceva che non avevo il senso delle proporzioni. O forse l’avevo perduto, pensavo.
L’insegnante, dicevo, guardò il foglio e disse: «Bello questo disegno, cosa rappresenta? Un sole?»
Risposi che no, non era un sole. Era la mia testa, dai quali partivano i miei capelli dritti come raggi di luce che accecavano gli altri.
Restò sconcertata. Figlia del demonio, disse tra i denti.
Una caduta di stile che le costò le ore nella nostra classe. La preside le tolse la cattedra, sostituendola con un prete, di quelli un po' viscidi, ma non è questa la sua storia.
A casa, raccoglievo il mio corpo in un angolo. Leggevo a voce alta.  Mia nonna disse a mia madre che sapevo leggere molto bene.
Lei rispose solo: «Ah sì?»
Dopo cena, mi appollaiavo accanto alla finestra,  dietro i vetri sporchi, a esplorare il cielo buio, a scrutare un movimento, una forma di vita, qualcosa per cui gioire, una scoperta. Spesso riuscivo a cogliere piccoli bagliori, stelle cadenti, sentivo il cuore accelerare, chiudevo gli occhi e tentavo disperatamente di declamare un desiderio.
Non ci riuscivo mai.
Tutto ciò che desideravo non si sarebbe mai avverato.
Può una stella cadente realizzare il desiderio di avere una testa moderatamente normale, una famiglia che mi considerasse, un modo per scappare da tutto quello che fu dal giorno dopo in poi?
Evidentemente no.
Le stelle cadenti avevano altro da fare.
Un tempo lontanissimo ero la bambina dei perché, è così che mi ribattezzo la mia vicina di casa. Mi salutava chiamandomi per nome, non lo faceva nessuno tranne lei.
Mentre stendeva i panni profumati di marsiglia, io le chiedevo del perché il cielo avesse le nuvole, del perché ogni tanto avesse un braccio fasciato o un livido in volto. Lei diceva che le nuvole esistono per portare la pioggia e che lei ogni tanto non era stata brava e qualcuno la puniva. Quindi mi ammoniva dicendomi: «Tu fa’ sempre la brava, così non ti punirà nessuno. Capisti?»
Annuivo, ma non ero sicura di aver capito.
Poi ho capito che per non essere giudicata e diventare davvero trasparente, non mi serviva essere brava, dovevo restare zitta e muta.
Con il silenzio sviluppai un balbettio impercettibile, che io però conoscevo molto bene.
Un giorno mi portarono presso un centro per problemi mentali. Una struttura triste, dove qualche piano in su, la finestra fu chiusa velocemente dopo un urlo disumano.
Salivo le scale e pensavo: Non sono pazza, non sono pazza…
Se me lo avessero chiesto avrei risposto così.
Il dottore in camice bianco, dietro la sua scrivania, di una stanza vuota, dalle pareti color guscio d’uovo, mi guardò incrociando le dita come se stesse pregando, chiese: «Allora, piccola, come ti senti?».
Risposi: «Non sono pazza».
Sorrise spostando il suo baricentro verso lo schienale della sedia di formica verde acqua sulla quale sedeva e disse: «Oh certo che no, piccola!»
I miei genitori sembravano annoiati, mia madre aveva l’espressione solita di chi è perso nei propri pensieri e quasi provava vergogna.
Probabilmente, all’epoca sarebbe stata una paziente più adatta di me, visto che qualche anno dopo si tolse la vita con un cocktail di barbiturici.
Non dissi altro.
Il dottore alzò la cornetta del telefono e disse solo, in due tonalità differenti: «Sì… sì…», dopo qualche secondo bussò alla porta un’infermiera. Mi si avvicinò, aveva le guance ricoperte di lentiggini, mi ricordò Candy Candy. Allungò la mano e chiamandomi per nome, disse di seguirla. In una sala d’attesa vuota. L’infermiera mi disse di non uscire fino a che qualcuno non fosse venuto a chiamarmi. Mi avvicinai alla finestra. Per guardare fuori dovetti arrampicarmi su una di quelle sedie di formica, ferro e legno, e per spostarla feci un gran casino.
Ma non venne nessuno.
Avevano tutti qualcosa da fare.
Nell’antro interno di quell’edificio, vidi camminare un paio di persone, o ciò che restava dei loro corpi: la testa bassa, sussultavano a ogni minimo rumore. La finestra aveva le inferriate, e mi ritrovai come un carcerato a guardare il mondo lì fuori e ciò che vedevo non mi piaceva.
Sentii delle voci familiari e un secondo dopo la maniglia della porta si abbassò e io persi l’equilibrio. I miei genitori lasciarono che fosse il dottore a soccorrermi e sollevarmi.
«Come stai?» mi chiese nuovamente. Risposi con un lieve movimento delle labbra e feci sì con la testa.
Lasciammo l’edificio. Io con la speranza nel cuore di non tornarci mai più, i miei genitori con un programma fitto fitto per il mio futuro prossimo.
Due settimane, tre sedute settimanali, la terapia elettroconvulsivante (TEC), comunemente nota come elettroshock, mi era stata servita su un piatto d’argento.
Mi dolevano i muscoli, spesso non ricordavo neppure chi avessi incontrato, cosa indossavo prima del camice e chi fosse la mia famiglia.
Purtroppo quest’ultimo ricordo insisteva nel tornare sempre.
Restavo in silenzio, svolgevo i miei compiti e attendevo giorni migliori. Sarei cresciuta anch’io e anche la testa sarebbe sembrata meno sproporzionata ai miei occhi. 

© Un racconto di Mathilde Tulla - Illustrato da Sofia Casavecchi Editing di Chiara Bianchi


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