Cloudia | Racconti Indigeribili

Cloudia | Racconti Indigeribili

Scritto da Mattia Grossi
Illustrato da Irene Cavalchini


Cloudia

Sono disteso sul prato.
Le mani intrecciate dietro la nuca.
Due fili d’erba più lunghi mi solleticano il gomito.
Tra poco pioverà e mamma mi ha già chiesto due volte di rientrare in casa.
Ho fatto finta di non sentire.
Mi piacciono i temporali estivi, perché durano pochissimo.
Sembrano quasi un dispetto della natura, un modo per farci scuotere e non farci stare troppo tempo allungati con la pancia al sole.
Poi rimane il profumo di umidità.
Bisogna essere davvero scemi, con tutti i profumi che ci sono nei negozi, a non vendere il più buono.
Una goccia sul naso.
Passa sempre un po’ fra la prima e le altre, perché così uno ha il tempo di ripararsi se vuole.
Oltre che profumata, la pioggia è anche gentile.
E ha un buon sapore.
Mi alzo in piedi e tiro fuori la lingua, raccolgo due gocce gemelle nello stesso momento.
«Mamma, c’è una nuvola con la mia iniziale in cielo! Sta piovendo per me!».
«Lorenzo! Ti avevo detto di rientrare prima che cominciasse e adesso sei tutto fradicio. In doccia e basta con queste sciocchezze!», urla.
Apro la finestra del bagno e do un altro sguardo alla “mia” nuvola.
Un ululato di vento risuona nella stanza e per un attimo mi sembra che qualcuno stia gridando un «Nooo».
Forse voleva che restassi un po’ di più con lei.

«Ci vediamo giovedì prossimo», dice il mio coinquilino, con la faccia pallida.
«Fai le condoglianze ai tuoi. E a tua sorella» gli rispondo io, quindi ci abbracciamo e lo seguo con lo sguardo fino all’ascensore.
Torna al paese per una settimana per il funerale di suo nonno.
Ha pianto tutta la notte e io per consolarlo ho preparato una carbonara. Il pecorino ha fatto un po’ di grumi e l’uovo si è cotto un po’ troppo, ma lui ha apprezzato lo stesso e quantomeno ha sorriso.
Ora però devo scrostare la pentola, rimasta a mollo nell’acqua e sapone.
La massa gialla non ha nessuna intenzione di venir via dal teflon.
Fuori piove. Ipnotizzato seguo le gocce rincorrersi sul vetro della finestra, mentre do dei colpi ritmati di spugna. C’è una macchiolina scura sul soffitto. Resto per qualche minuto a fissarla. Mi allarmo.
«Un’infiltrazione» pronunciano le labbra, ma le mani continuano a scrostare.
La macchiolina si allarga per tutta la parete, sembra un piccolo cuore stilizzato fra le maioliche e la cappa.
Raggiungo il pianerottolo a grandi falcate, mi lancio nella tromba delle scale.
Salgo fino al terrazzo condominiale, la pioggia non mi risparmia e in pochi secondi sono zuppo dalla testa ai piedi.
Guardo in alto e non la vedo. C’è un muro grigio e uniforme, venato da qualche lampo sparso.
Poi riesco a distinguerla sulla mia testa. E dove sennò.
La “mia” nuvola ha la forma di una mano, con il palmo e tutte e cinque le dita. Mi sta salutando e il vento la sostiene, scuotendola di qua e di là.
«Ti chiamerò Cloudia! Ti piace?».
La mano adesso è chiusa e tiene solo il pollice in su.
«Ti posso offrire qualcosa, Cloudia?», le urlo.
Cloudia mi raggiunge sorretta dal vento.
Apro la porta dell’appartamento e dico «Dopo di te, cara», la faccio accomodare in cucina.
«Caffè?» chiedo.
Lei alza il pollice e io metto su la moka, incurante della parete infiltrata.
Mentre attendiamo le chiedo impaziente:
«Eri tu, quel giorno, vero? Come hai fatto a trovarmi?».
Lei rialza il pollice e si fa rossa di vergogna, come avesse un sole che tramonta dietro di lei. Con un’estroflessione biancastra e spumosa viene verso di me e, percorsa da un minuscolo fulmine, mi illumina il petto come il flash di una fotografia.
«Le due gocce» dico io.
Mi sono rimaste nel cuore e mi hanno legato a lei per sempre.
Il profumo di caffè riempie la cucina. Colmo la mia tazzina e verso il liquido restante su di lei che diviene un cuore caffelatte.
«Vuoi restare a dormire qui? Sono solo stanotte», le dico all’improvviso.
Non so perché, ma non me ne pento.
Lei mi regala un tramonto mozzafiato pieno di imbarazzo e alza il pollice.

Io e Cloudia stiamo insieme ormai da dieci anni.
Lo scorso dicembre siamo finiti sulla copertina del “Times” come “Man of the year” e “Cloud of the year”, perché il nostro operato nel deserto del Sahara ha salvato diciassette villaggi dalla carestia. Luoghi in cui pioveva una volta l’anno, hanno beneficiato delle piogge di mia moglie.
Non dimenticherò mai i volti felici di quella gente. Quando siamo tornati a trovarli ci hanno offerto metà del loro primo raccolto. Al nostro gentile rifiuto si sono opposti con due grandi ceste di pomodori. E abbiamo dovuto accettarle per forza.
Entro in cucina e la trovo a piovere a dirotto.
«Perché piangi, amore mio?» le chiedo.
Per un attimo, prende la forma di una mamma con un bambino in grembo, quindi torna al suo naturale contorno, con tanto di grandinata singhiozzante sul parquet.
Io non riesco a guardarla e tengo la fronte bassa.
Anche io vorrei dei figli da lei. E un modo ci sarebbe anche. Ma ho troppa paura.
«In Cina c’è questo visionario… Gli ho scritto una notte, di getto. Qualche mese fa. E mi ha detto che è assolutamente in grado di aiutarci. Ma ho sbagliato, amore mio. Se non andasse bene, non potrei mai perdonarmelo».
Lei smette all’istante di grandinare e forma due mani giunte in preghiera. Ha già deciso. Come faccio a dirle di no?

«Dottore, lei è sicuro?», chiedo e l’interprete traduce per me.
«Sì», mi dice dopo qualche secondo. Quindi aggiunge «le ho già spiegato il funzionamento diverse volte. La pressione elevata trasformerà sua moglie in una donna solida a tutti gli effetti. Non c’è alcuna ragione perché lei si preoccupi. Ora esca fuori e attenda di abbracciarla. Sarà bellissimo, vedrà».
Il dottor Xiaoyu sorride e mi indica la sala d’aspetto. Lancio un ultimo sguardo a mia moglie.
Passa un’ora.
Due.
Infine, la porta si apre. Ne viene fuori una donna bellissima, con la pelle diafana.
«Lorenzo».
Ha parlato.
Mia moglie ha parlato e ha le guance rigate di lacrime di commozione.
«Cloudia».
Non riesco a dire nient’altro. La bacio sulle labbra, sugli occhi. Ovunque. La sua pelle sa di umidità. Il profumo più buono del mondo.


© Illustrazione di Irene Cavalchini | Racconto di Mattia Grossi | Editing di Chiara Bianchi 


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