Scritto da Ermanna Serpe
Illustrato da Orsola Damiani
La caduta del capo
Se fossi stato capace di accorgerti del mondo, se ci avessi voluto bene, ci avresti chiesto almeno una volta come stavamo. Ma tu, cazzo, non eri neanche capace di parlare. Non sai quante volte avrei voluto prenderti a calci. Io sapevo fare tutto. Chiunque mi lodava, tranne loro. Non pensare che non lo sapessi: io ricordo tutto. Attiravi l’attenzione sul più bello: quando facevo la ruota, mamma era distratta ad asciugarti la bocca. Bavoso di merda. Dopo una recita, ansiosa sfidavo le luci per vedere mamma e papà: litigavano, tu, in mezzo, ti agitavi. Era colpa tua, avevi disturbato gli altri e nessuno dei due era riuscito a calmarti. Animale. Ogni volta che non volevi mangiare, io mangiavo di più. Tu sputavi, io vomitavo di nascosto: legavo i capelli, mi tenevo la fronte come una volta ha fatto mamma per non farmi sbattere contro la tavoletta del cesso. Mi portavo dietro un bicchiere di plastica e lo riempivo di collutorio. Lo trattenevo in bocca più che potevo fino a farmi lacrimare gli occhi. Andavo a fare i compiti e tu gridavi. Gridavi sempre. Premevo le mani sulle orecchie ma ti sentivo lo stesso. Verme. Papà tornava tardi; non sorrideva più come in quella foto al mare. Anche mamma era felice. Aveva i capelli lunghi, era magra e bella. Ora è solo magra. Tu non c’eri. Te la ricordi la ruga di papà? Gli tagliava la fronte. A me faceva paura. Sembrava non vedesse più niente. Andavo a nascondermi. Urlavi e lui spaccava tutto. Brutto cretino. Mamma piangeva, papà usciva di nuovo: eri tu il capo.
Persino nonna ti voleva bene. A te che eri brutto, stupido e sempre sporco. Ci godevi a farti pulire il culo da mamma, ammettilo. Maiale. Nonna diceva che dovevo avere pazienza e pietà perché io sarei diventata grande e avrei avuto una famiglia mia e tu, invece, saresti rimasto bambino per sempre. Ti ho odiato di più. Non volevo lasciarti mamma e papà. Eccomi qui. Sono grande e non sono andata da nessuna parte. Tu, invece, non ci sei. Ti credevi furbo. Povera bestia. Ricordi quando ti ho regalato il peluche? Un cagnolino. Come te. Non ti volevo bene anche se ti ho accarezzato la testa. Avevi sempre i capelli lerci. E sì che mamma ti faceva lo shampoo spesso. Fino all’ultimo giorno, ti ha lavato come una serva. Come fossi un neonato. Le hai spezzato la schiena. Schifoso. Esistevo solo in virtù dei sacrifici che accettavo per te. Papà una volta mi ha detto che con lui potevo parlare di tutto. C’è mancato poco ammettessi che mi sarebbe piaciuto ammazzarti. Gli ho fatto un sorriso e ci ho guadagnato un abbraccio. Un abbraccio vero a me, da papà. Da papà, capisci? Ti odiava ma non poteva dirlo. Infatti, adesso è felice.
I miei giochi, i quaderni, persino i vestiti: rompevi sempre tutto. Piangevo, lo ammetto. Non mi era consentito protestare perché eri piccolo. L’altra parola con la emme non la pronunciavano mai. Delle tue cose bisognava, invece, aver rispetto. Guai a toccarle. Così, quando nessuno mi vedeva, prendevo i tuoi giochi e te li sventolavo sotto al naso solo per farti arrabbiare. Mugolavi cercando di acchiapparle. Quando eri stanco iniziavi a sbavare e piangere, poi, quando te le lanciavo e non riuscivi a prenderle, gridavi furioso. Cercavi di inseguirmi ma inciampavi. Io ero veloce. Ho vinto gare a scuola, caro mio. Quando mamma tornava, le dicevo che di colpo ti eri arrabbiato. Lei non si fidava di nessuno quando si trattava di te. Andava in bagno con la porta aperta per non perdersi una minima inflessione dei tuoi versi più simili a rutti che a parole. Idiota. Poi una volta si è fidata di me. Capisci? Avevo un piano. Volevo farti piangere talmente tanto che ti saresti strozzato. Del resto, nonna lo diceva che era pericoloso. Io ci speravo sempre. Ho aspettato che mamma uscisse e poi ti ho chiamato. Arrivasti col tuo passo incrociato e la testa ciondolante. Quando mi hai vista alla finestra mentre facevo dondolare nel vuoto il tuo peluche, sei impazzito. Ti sei gettato per terra. Che ridere. Più gridavi e più ridevo. Scalciavi come un cavallino. Che forza avevi in quelle gambette sbilenche! Eri buffo. Sbavavi a tutta forza, sputavi nella mia direzione. Mica volevo buttarlo di sotto! Era solo per vederti schiattare di collera. Mi piaceva quel peluche. Lo avevi trattato di merda, era tutto unto. Lo avrei messo in salvo da te che imbrattavi, rompevi, rovinavi ogni cosa. Solo quando hai iniziato a sibilare e contorcerti come un insetto, ho chiamato la vicina. Prima però, mi sono avvicinata e ti ho guardato. Volevo capire se mi avresti tradita. Ma tu già non ricordavi niente quando mamma ti ha riconsegnato il peluche. Eri uno semplice, tu. Non t’importava dell’odio, non capivi l’amore: eri un grumo di bisogni. Porte sbattute, silenzi, occhi bassi, assenze, “Papà ha chiesto di me?”, “Oggi sono stata brava”, “Forse mi daranno un premio”, “Ho vinto”: a te non fregava un cazzo.
Sappi che non ho sentito niente quando è finito tutto. Era quello che volevo. Stare come stavi tu quando ottenevi qualcosa. La finestra era aperta, ok, non l’ho chiusa come mi aveva chiesto mamma. Giuro però che non l’ho fatto per distrazione. Te lo direi se fosse stato un piano. Sei salito sulla sedia, ti sei sporto e hai iniziato a fare il pazzo. Ho avuto il tempo di girarmi e guardarti saltare come uno scimpanzé. Ho accennato un passo nella tua direzione, mi sono fermata. Ho aspettato di vedere che succedeva: sei volato giù piccolo lurido insetto. Mi sono sporta. La signora sul marciapiede gridava. Il cagnolino che teneva al guinzaglio era identico al tuo peluche. Avrai pensato te l’avesse rubato. Ricordi quando ti sei versato un vaso intero di marmellata di fragole alla festa dell’amica di mamma? Una donna ha detto fra i denti che i bambini non erano stati invitati. Mamma si è sentita a disagio. Ecco, eri identico a quel giorno: macchiato di rosso dalla testa ai piedi. Non avevi un capello in testa che non fosse tinto di gelatina. Quando ho capito che avrei dovuto piangere e scappare fuori, mi sono girata. Mamma era in piedi dietro di me con i capelli bagnati, l’asciugamano per terra. Al primo trillo del citofono ha lanciato un grido. Ho pensato fosse molto brava a fingere. Pure lei ha preferito aspettare la tua mossa. Quando restiamo sole e ci guardiamo negli occhi, lei abbassa lo sguardo perché si vergogna. Vorrei dirle che i segreti so mantenerli, ma di te non parliamo mai. Di te non abbiamo più parlato.
© illustrazione di Orsola Damiani | Racconto di Ermanna Serpe | Editing di Chiara Bianchi
La caduta del capo | Racconto | Indigeribili
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