Illustrato da Letizia Battisti
Scritto da Adele Bloch-Bauer
All’ennesima potenza
Avevo perso dieci chili in tre mesi, la mia figura asciutta. Davanti a quel corpo vuoto: gli occhi spenti, privi di vita, scorsi un breve luccichio. Poi più nulla. Osservavo qualcuno che non somigliava più a me. Ciò che ero, stava svanendo.
Il risveglio appariva figlio della stanchezza. Le membra consumate e lo specchio che suggeriva segni sempre più chiari: giramenti di testa, occhiaie marcate, l’animo a pezzi. Il decadimento di un corpo ormai anonimo.
L’ottantacinque percento dei casi guarisce senza problemi futuri. Io pensavo alla restante percentuale. I risultati della PET misero fine a ogni dubbio, se ce ne fosse stato ancora qualcuno. Avevo il cancro.
Al colloquio con la dottoressa fui imperturbabile. Ascoltai il programma: chemioterapia, radioterapia. Ero fortunata, disse. Era tutto nelle mie mani, aggiunse. Il mio corpo, nella sua interezza, avrebbe decretato la vita o la morte.
L’applicazione di un Pic al braccio avrebbe permesso di inoculare le terapie. Un’operazione semplice, se non avessi avuto vene sottili che richiesero l’intervento di due infermieri e un’anestesista. Mi tenevano ferma, spingevano, giravano, bestemmiavano in sordina. Due ore e mezzo di lavoro sul mio corpo sfranto.
Una pila di fogli da firmare di cui ignoravo quasi completamente il contenuto: pensavo solo che non potesse finire così.
Torino era silenziosa quell’undici gennaio.
Il primo giorno di day-hospital, in una camera asettica, di due letti e poco altro, portai con me libri e musica. Alternavo momenti di lucida allegria, a momenti di totale buio – quando il liquido rosso s’infila assieme a quello trasparente, goccia dopo goccia, le vene ardono, il petto s’incendia e la gola si secca. Bere molta acqua, dicevano. L’illusione di liberare il corpo da quei fluidi che infondevano uno strano calore, uno stordimento.
Mi spostavo lenta dal letto al bagno, una marionetta con tubicini attaccati alla sostanza sintetica che mi avrebbe, forse, ridato la vita. Ridevo così forte. Un’infermiera, richiamata dalla mia sfacciata contentezza, seria mi disse che avrei dovuto rasarmi la testa, altrimenti ci avrebbe pensato lei.
A perdere i capelli, io, non ci avevo pensato. E poi capii: la vista delle ciocche sparse, morte sul cuscino, rese tutto più chiaro.
Un incontro ogni quindici giorni, e nel mezzo strane sensazioni e una inaspettata vitalità. Tre millimetri di capelli, il viso smunto, pallido, e una potente forza dentro. Non avevo fame: le mie pupille gustative erano state colpite a morte. E per cancellare quel gusto amaro non valsero litri di acqua, né pensieri positivi.
Le notti si fecero lunghe e insonni, i giorni corti e stanchi.
Disinfettante, camici bianchi, teste pelate, occhi spaventati, frasi a metà, volti scomparsi, lacrime di gioia e di terrore. Sorrisi. Cibo scarso e immangiabile. Organizzai una protesta con la mia compagna di stanza, con la quale fu subito sincera amicizia, tutto all’ennesima potenza, come quel mostrarci le immagini dei nostri corpi visti dall’interno. Misuravamo possibilità, differenze e speranze. Il suo entusiasmo era immenso come il tempo che avrebbe impiegato a guarire, forse. I piselli erano crudi, il purè freddo e il formaggio caldo. Suonammo il campanello d’emergenza. Le infermiere furono travolte da una scarica di bacche verdi lanciate con un cucchiaio di plastica.
Si arrabbiarono molto. Ci divertimmo.
Maledetti capelli sparsi sul cuscino. È quella l’immagine che resta di lei. Non la rividi mai più e i piselli sparirono dal menu.
© illustrazione di Letizia Battisti | Racconto di Adele Bloch-Bauer | Editing di Chiara Bianchi
All’ennesima potenza | Racconto | Indigeribili
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