Manodopera di Diamela Eltit è un potente ritratto dell’alienazione lavorativa, tra consumo, sfruttamento e resistenza.
Recensione di Paolo Perlini
Supermercati e centri commerciali, le "cattedrali moderne", da tempo sono diventati luoghi di aggregazione sociale. Offrono nuovi rituali legati al consumo, promettono appagamento e identità attraverso l’acquisto. E come ogni cattedrale, hanno bisogno degli officianti, addetti al culto, formiche operaie che si muovono lungo traiettorie e riti che loro ben conoscono.
Questi officianti sono i protagonisti di Manodopera di Diamela Eltit, un romanzo che va ben oltre il semplice racconto di lavoratori alienati di un supermercato. Diviso in due parti distinte, il romanzo alterna il punto di vista di un narratore anonimo, un inserviente del supermercato, e quello di un gruppo di lavoratori che condividono una casa. La prima parte, "El despertar de los trabajadores - Il risveglio dei lavoratori", è un monologo crudo e angoscioso che dipinge l'esperienza lavorativa come un processo di svuotamento dell'individuo. Il protagonista, consumato dal lavoro e ridotto a un oggetto privo di identità, riflette sulla sua condizione con un linguaggio ossessivo e riflessivo, quasi filosofico. Qui, la realtà del supermercato diventa una sorta di tempio pagano, dove le merci sono venerate dai consumatori come divinità, mentre i lavoratori sono ridotti a corpi senza volontà, sacrificati sulla base di una logica spietata di efficienza e profitto.
Cammino e mi muovo come un buon pezzo di ricambio. Chi sono io? Mi chiedo come uno stupido. E mi rispondo: «un pezzo di ricambio, buono e giusto».
La seconda parte, Puro Chile, segna un cambio di tono e di stile, passando dal monologo interiore a un “noi” collettivo, la voce di un gruppo di lavoratori del supermercato che vive insieme. Pubblicato in lingua originale nel 2002, il romanzo sembra quasi anticipare le dinamiche del Grande Fratello, ma in una versione ben più cupa e reale, dove la convivenza forzata non genera intrattenimento, bensì tensione e degrado. In questa sezione, Eltit mostra come la precarietà e la disperazione dissolvano i legami umani: la casa dei protagonisti non è un rifugio solidale, ma una succursale del supermercato, un microcosmo dominato dalla lotta per la sopravvivenza e dalla paura costante del licenziamento, in cui il cinismo impregna ogni relazione. Gloria, Alberto, Isabel, Enrique, Gabriel, Sonia…sono i veterani, coloro che resistono a ogni riduzione di personale, ma rimangono vittime.
Sopravvivere indossando l’emblema monotono della divisa con il suo logo enorme che risplendeva sotto le luci delle alogene del supermercato.
Ma noi resistevamo all’incredibile ondata di licenziamenti. Sembravamo indistruttibili.
Il romanzo colpisce con una scrittura intensa e perturbante, capace di scuotere il lettore. La prima parte, con il suo ritmo incalzante e il linguaggio ossessivo, non è di facile lettura, ma proprio questa difficoltà amplifica il senso di alienazione. La seconda, pur più corale e fluida, non concede tregua: la precarietà diventa la regola, il cinismo una difesa necessaria. Eppure, tra le pieghe del testo, emergono lampi di ironia sottile, quasi a suggerire che, anche nel degrado, resiste una forma di resistenza umana.
In questo 2025 di letture lente e ponderate, con mia sorpresa, è stato il libro che più mi ha colpito.
Titolo: Manodopera
Autrice: Diamela Eltit
Traduttrice: Laura Scarabelli
Casa editrice: Polidoro
Pagine: 168
Pubblicazione: 21 ottobre 2020
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