Ma io quasi quasi | Michele Bitossi

Ma io quasi quasi | Michele Bitossi

Riccardo, il protagonista, ci racconta l’amarezza dei diseredati con l’ironia necessaria a rendere la vita più sopportabile
Ce ne parla Chiara Bianchi

Michele Bitossi e il suo romanzo d’esordio Ma io quasi quasi dal catalogo di Accento Edizioni, ci invita a seguire il racconto in prima persona di Riccardo: ansioso, con le mani secche, problemi con le donne, in particolare con la sua ex donna, padre di una figlia che spera di poter rivedere presto e una vita disordinata ma legittima. 

Una scrittura che ricorda Irvine Welsh di Porno nell’avvicinarsi alla figura femminile, che in Bitossi si delinea in quattro tipi (quelli incontrati dal suo protagonista): le pazze come Kerstin, le autonome come Anna e Paola, quelle degli incontri casuali e sua madre che personifica l’insoddisfazione e la sottomissione di un’epoca, quella nata dal boom economico. 

In questo romanzo, risuona, depotenziata ma forse più attuale, quella scrittura pre-memoriale degli anni Novanta italiani, quella delle penne irregolari uscite dalla fucina di Canalini. Una scrittura privata, ma senza vittimismo, che garantisce l’esperienza vissuta sulla propria pelle. Ho detto senza vittimismo non a caso e questo è un grande pregio di questa storia. Seguiamo il protagonista, affrontiamo il dramma che sta vivendo nella settimana prima della decisione del tribunale, che permetterà a Riccardo di poter rivedere sua figlia, ma lo facciamo trasversalmente. Quello che sembra volerci dire è: guardate, la mia cazzo di vita è tutta qui, tra incertezze, colpi di testa ed errori. 

Ma chi non erra? Chi non vive. E allora ci accorgiamo che sì, egli sta vivendo con le sue forze e con le sue mancanze, con malinconia e quel grammo di (cocaina?) ironia che trasforma la situazione più difficile in qualcosa di sopportabile, nonostante tutto. 

Quando mi agito, mi si seccano le mani. 

Bitossi gioca con il gergo dialettale genovese immergendolo nel parlato nervoso del suo protagonista. Usa il dialogo indiretto, lascia che Riccardo giochi con lo smartphone, fatto di app di incontri e telefonate al vivavoce. Guida per le strade del centro Italia, ci porta a spasso in moto per la riviera ligure. Ci fa rivivere quella irrisolutezza che è caratteristica primaria e fondante di quelle generazioni nate tra gli anni Settanta e Ottanta, che nei Novanta si sono ritrovate sparate nell’iperuranio dell’incertezza storica, politica e sociale. Sono i diseredati a cui lascia la parola che ci spiegano quanto l’arte non sia un ripiego ma una vocazione, a volte l’unica per salvarsi, come per Fra o per Paola; quanto l’amore non sia tutto ma è abbastanza per vivere se sei padre. Ci racconta del rapporto con il sesso ai limiti della frigidità più emotiva che fisica. Ci spiega che essere distratti, in questa società e nelle relazioni, non è concesso: il rischio è quello di trovarsi spalle al muro o rinchiusi in un vecchio mondo, che assomiglia molto a quello dei propri padri, dal quale non è certo facile uscire. 

Godibile la gag costruita con Shapiro che gli ruba gli occhiali da sole. Un po’ meno riuscita la parte in cui inserisce i fatti di Genova del 2001 (ma quelli è difficile raccontarli, c’è poco da aggiungere). 

Lasciatevi spalmare di Nivea le mani screpolate, entrate in auto con Riccardo e contate i giorni insieme, nell’attesa del futuro, riavvolgendo il nastro di una vita.

Improvvisamente nella mia testa inizia un flashmob con centinaia di pensieri che urlano fortissimo e mi fissano.



Titolo originale: Ma io quasi quasi
Traduzione: Michele Bitossi
Editore: Accento edizioni
Pagine: 192
Pubblicazione: 22 gennaio 2025

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