Pena perpetua | Ricardo Piglia

Pena perpetua | Ricardo Piglia

«Ho iniziato così il Diario e non ho mai smesso di scrivere». Due nouvelle in forma di diario. L’uso della scrittura privata per narrare, ovvero, «introdurre nella vita di un estraneo un’esperienza inesistente che ha un grado di realtà superiore a quella del vissuto». 
Recensione di Chiara Bianchi

In un’intervista del 1982 – inserita in R. Piglia, Critica e finzione, Mimesis, 2018, in cui l’autore raccoglie interviste dedicate alla scrittura, alla letteratura, alla finzione e alla critica – Ricardo Piglia, nato cresciuto e morto in Brasile, alla domanda «Come ha cominciato a scrivere?» risponde «Nel 1957 iniziai a scrivere un diario, che sto ancora scrivendo e che è cresciuto in modo un po’ mostruoso. Per me questo diario è letteratura, voglio dire che vi si racconta la storia della mia relazione con il linguaggio. Scrivevo per cercare di capire cos’era scrivere […]» e poco più avanti «[…] mi inventavo una vita, scrivevo finzioni e il diario era una specie di romanzo: nulla di ciò che c’è lì dentro è successo così come è scritto». 
Quanto diceva sulla finzione letteraria, merita di essere approfondito: in un’altra intervista Piglia dice che «la finzione costruisce enigmi con materiali ideologici e politici che maschera, trasforma e poi trasporta altrove». 
La finzione nei suoi romanzi, nelle sue raccolte di racconti, è l’essenza di quella che per lui è la letteratura: «una forma privata di utopia». 

Pena perpetua e Incontro a Saint-Nazaire le due nouvelle, pubblicate nella collana Orso nero da Wojtek edizioni, tradotte da Federica Arnoldi e Alfredo Zucchi, si inseriscono in quello che Piglia definisce «lo spazio vuoto del segreto». Ciò che diversifica un narratore di short stories da un narratore di nouvelle sta nell’incapacità stessa del narratore di spiegare l’accaduto. 
Quello che troverete leggendo queste nouvelle è il mistero dell’esperienza inesistente inserita nella vita di uno sconosciuto che supera la realtà del vissuto. 

Steve coltivava il mistero perché sapeva che un intreccio riuscito ha bisogno di un meccanismo nascosto. Non si tratta di enigma, diceva, ma di una storia che non può ancora essere raccontata. 

Troverete Steve Ratliff, mentore di Ricardo Piglia ai tempi della sua giovinezza, vi scontrerete con microstorie di personaggi che apparentemente non hanno nulla da raccontare, accumulerete pezzi di verità e di realtà, perché c’è differenza tra le due, questo lascia dire l’autore ai suoi personaggi. 
Uno dei crucci di Piglia ha proprio a che fare con il trovare una risposta al come riuscire a narrare l’esperienza. In queste due nouvelle ci prova attraverso la forma diario, l’uso di una scrittura privata, libera, distesa su elementi e dettagli che colpiscono solo l’occhio di chi osserva e scrive. 

L’esperienza ha una struttura complessa, opposta in tutto e per tutto a quella della verità. Non si impara nulla dall’esperienza! Si può conoscere unicamente ciò che non si è ancora vissuto. 

Non so mai se ricordo le scene o se le ho vissute. Tale è il grado di nitidezza con cui sono presenti nella memoria. E forse narrare non è altro che questo: introdurre nella vita di un estraneo un’esperienza inesistente che ha un grado di realtà superiore a quella del vissuto. 

Ma qual è il segreto che Piglia non si rassegna a tacere e lo porta a scrivere, ancora e ancora, ciò che scrive? Forse il segreto non è nell’opera stessa, ma in ciò che il lettore sa dell’opera. Ciò che determina l’essere e l’esperienza nella lettura sono le conoscenze a priori e la capacità creativa del lettore: è un segreto che è sempre stato lì, ma che non è facile da vedere.



Titolo: Pena perpetua
Autore: Ricardo Piglia
Traduttori: Federica Arnoldi e Alfredo Zucchi
Casa editrice: Wojtek
Pagine: 150
Pubblicazione: 18 settembre 2024

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