Il decimo girone dell'inferno | Rezak Hukanović

Il decimo girone dell'inferno | Rezak Hukanović
Il decimo girone dell'inferno | Rezak Hukanović
Non è indicato ai deboli di cuore. O forse sì, è proprio per loro. Per chi negli anni '90 non aveva capito che alle nostre porte erano di nuovo calate le tenebre.

Di Paolo Perlini

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Prijedor si trova a 400 chilometri dal confine italiano, 650 da casa mia. Nella primavera del '92 la pulizia etnica iniziò qui. I bosgnacchi (bosniaci musulmani) e i bosniaci croati furono scacciati dalle proprie case e rinchiusi nei campi di Omarska, Trnopolje, Keraterm, Manjača. In questi lager, soprattutto Omarska e Trnopolje, fu sterminata l’èlite politica ed economica della città.

Omarska era un posto nel quale l'Uomo diventò peggio delle bestie (“Nessun animale tortura e uccide un suo simile per piacere”, dice Paolo Rumiz nella postfazione). Le guardie, spesso ubriache, torturavano, picchiavano, mutilavano e massacravano i prigionieri per puro divertimento. Tra di loro ci fu chi tentò il suicidio pur di non subire le violenze.
Chi entrava nella casupola chiamata Casa Bianca ne usciva malconcio, pieno di percosse, con gli arti rotti, mentre le pareti di queste stanze si tingevano di rosso sangue. Chi entrava spesso non ne usciva: veniva portato fuori e caricato su un camion per essere seppellito da qualche parte. 

Dieci capitoli dell’orrore nei quali si comprende sempre di più quanto l’Uomo non sia affatto l’essere più intelligente di questo pianeta. Se lo fosse, non si comporterebbe così.

Il decimo girone dell'inferno, anche se scritto in terza persona, è la testimonianza diretta di chi in quel campo di Omarska c'è stato, ha visto, subito, sentito. È sopravvissuto. Rezak Hukanović, giornalista, speaker radiofonico e poeta, con questa testimonianza ha ispirato documentari televisivi in Norvegia, Svezia e Germania.

Racconta dei giorni in cui «in Bosnia anche il sole si è intriso di sangue» chiedendosi, alla fine di tutto se «coloro che hanno ferito la notte, dopo aver già assassinato il giorno, sapranno almeno fingere il pentimento».

Nel giugno del 1992, un inviato del quotidiano inglese Guardian, riuscì ad ottenere il permesso per visitare il campo di Omarska che risultò essere uno dei più infernali campi di concentramento. Le fotografie furono pubblicate sui più importanti quotidiani e scossero l’opinione pubblica occidentale. Francia e Stati Uniti chiesero l’ispezione internazionale ai campi di prigionia in Bosnia. Da parte degli altri paesi, compresa l'Italia, ci fu soltanto un assordante silenzio. 

Ora, dopo trent'anni, a parte i comandanti giudicati dal tribunale dell'Aja, carnefici e vittime vivono fianco a fianco. Si guardano, si studiano, c'è chi vede chi gli ha ucciso o stuprato la figlia, chi vede l'assassino e il torturatore del padre. Un odio che perpetua quello che c'è stato fra ustaša e cetnici, pronto a ribollire, a rendere sempre più profetico e di nuovo attuale quanto Ivo Andric, premio Nobel per la letteratura nel 1961, aveva tristemente previsto nei suoi Racconti di Sarajevo.

Così scriveva in "Lettera del 1920”:

«Forse in Bosnia bisognerebbe ammonire la gente a guardarsi a ogni passo, a preservare ogni pensiero, anche il più sublime, dall’odio, l’odio innato, inconscio, endemico. Questa terra arretrata e povera, dove vivono ammassate quattro religioni differenti, avrebbe bisogno quattro volte di più della comprensione reciproca e della tolleranza rispetto agli altri paesi. E invece, al contrario, in Bosnia l’incomprensione che ogni tanto si tramuta in odio è quasi una caratteristica della gente».

Negli anni '90, ad appena 400 chilometri dal confine, si era spento il sole. Per fare un confronto, Kiev è lontana cinque volte tanto, eppure, forse per i risvolti economici o per la copertura mediatica, sembra interessarci di più. Anche lì la storia si ripete: Mosca vuole de-ucranizzare l'Ucraina e Kiev vuole de-russificarla. Una guerra destinata a far nascere un'altra Omarska e altri testimoni, come Primo Levi e Rezak Hukanović.




Titolo: Il decimo girone dell'inferno
Autore: Rezak Hukanović
Prefazione: Elie Wiesel
Postfazione: Paolo Rumiz
Collana: I Saggi
Pagine: 156

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