Ed anche questo 69° festival di Sanremo è finito.
Al netto delle recriminazioni, legittime, e delle polemiche, comprensibili alcune e deprecabili molte altre, restano 24 canzoni che non dicono molto sullo stato di salute della musica di casa nostra, ma qualcosa ci raccontano.
Ci raccontano che forse non siamo messi così male come pensavamo; una volta fatta una scrematura dei soliti pezzi inutili, tipo quelli di Anna Tatangelo, Nino D’Angelo, Nek, Federica Carta e Shade, Il Volo, Paola Turci (ahimè), delle figure imbarazzanti di Patty Pravo (doppio ahimè) e del caso da Libro Cuore Arisa, ci resta una manciata di pezzi che hanno il loro perché.
L’idea di Baglioni di creare un mix fra classici presenzialisti del festival e volti nuovi ha avuto il suo effetto, regalandoci qualche sorpresa, ma soprattutto lasciandoci qualcosa da ascoltare.
Ci resta da ascoltare il brano dei Negrita, che portano il loro rock in maniera onesta e con lo stile di chi oramai è campione affermato. Ci rimangono la bella pazzia degli Zen Circus, che si presentano al festival con un pezzo senza ritornello, che di banale non ha davvero niente, e la solita gioia di vivere di Motta, che ha vissuto un festival in crescendo, dando il meglio di sé nella serata finale. Ci ricorderemo della sfacciataggine di Achille Lauro, che fa passare in secondo piano un pezzo che non è proprio di merda come molti sostengono. Ci sono piaciute anche la freschezza dei Boomdabash, e l’approccio di Ghemon.
Questo festival ha anche il pregio di averci ridato una Bertè in gran forma, come non si vedeva da tempo, che si è presentata con un pezzo giustissimo per lei, scritto da Curreri, che le ha permesso di ricordare a tutti che la signora è una vera rockstar.
Ma le vere perle della kermesse sanremese sono Simone Cristicchi e Daniele Silvestri.
Il primo ha portato in gara un brano impeccabile, sotto tutti i punti di vista, aggiungendoci delle esibizioni da brividi. Molti sostengono che non porta mai niente di nuovo a Sanremo, ma pochi portano sempre tanta qualità come fa lui su quel palco.
Su Daniele Silvestri non so davvero che dire; basterebbe allegare il video del duetto con Manuel Agnelli, co-autore del pezzo, farvi venire i brividi se non lo avete visto, e chiudere qui la questione. Il cantautore romano è come sempre fuori dagli schemi, porta in gara una disamina cruda, cattiva, su aspetti della società che spesso vengono nascosti. Un pezzo che magari parla del suo passato, ma che fa trasparire le inquietudini di un genitore in un mondo che va troppo veloce. E i complimenti vanno anche a Rancore che arricchisce la canzone (e non era facile) con le sue barre.
E poi c’è il vincitore, Mahmood.
Un vincitore con pieno merito, una ragazzo che si è presentato con un pezzo costruito davvero bene, e cantato anche meglio. Partito come outsider, pian piano ha visto crescere le sue quotazioni, fino alla vittoria finale (con buona pace di Ultimo, che comunque con quel nome può accontentarsi del secondo posto), con una canzone tutt’altro che banale, moderna, che finalmente si può cantare ed ascoltare in radio.
Ma il mio preferito è stato il pubblico dell’Ariston: bello, vestito a festa, educato per tutto il festival, salvo poi trasformarsi in una sorta di mix fra la platea di “Ok! Il prezzo è giusto” e gli affamati in fila al buffet dei dolci ad un matrimonio, dimostrando che se una rondine non fa primavera, una cravatta non fa educazione, nella migliore tradizione sanremese.
Ad essere pignoli è mancato il solito intruso sul palco, che va farneticando in diretta, fra l’imbarazzo generale. Ma forse sarebbe stato troppo.
Perché Sanremo è Sanremo.
© Luca Cameli