Canova, Alcatraz di Milano.
Report onesto in 3 atti di un concerto.
Atto I o “prima che tutto avesse inizio”.
Ad accoglierci già sull’autostrada la nebbia e la coda. Non che me ne lamenti: sarebbe stato come andare a Roma e non trovare il Colosseo o i cassonetti rigurgitanti pattume. Buonasera a te Milano.
Le innumerevoli rotonde, svolte, cavalcavia e inversioni mi han dato l’impressione che il piano urbanistico della zona fosse stato scopiazzato da un tracciato qualsiasi delle macchinine HotWheels.
Ero prontissimo: avevo investito un’intera ora del pomeriggio a studiare pareri e commenti sul locale e la zona, la disponibilità di parcheggi e gli eventuali punti di ristoro. Parecchi di essi dipingevano la zona come “malfamata” e “poco raccomandabile”.
Potrete immaginare lo stupore mio e dei miei 2 accompagnatori, che chiamerò Simone e Mary, che sono poi i loro veri nomi, scoprendo che il quartiere, definito appunto “malfamato” e “poco raccomandabile” sull’internet, sembrasse più un’anonima zona residenziale della periferia di una grande città. Impossibile reprimere un moto di tenerezza nei confronti dei milanesi e della loro percezione del pericolo.
Dopo aver parcheggiato l’auto ci avviamo all’ingresso del locale dove il nostro sesto senso, che è quello antropologicamente critico, ci suggerisce che di materiale per un report onesto in 3 atti ce n’è già.
Atto II o “e se l’attesa del concerto fosse essa stessa il concerto?”.
In piedi, all’esterno dell’Alcatraz, con in mano i nostri pericolosissimi panini respinti dalla sicurezza, mastichiamo e osserviamo. Tra un morso e un altro, Mary dice qualcosa che ha il potere di squarciare il velo di Maya e nebbia. “facciamo attenzione agli elementi ridondanti”. Ed ecco che avviene la magia: cominciamo a catalogare, sezionare con lo sguardo le diverse declinazioni dell’essere indie a Milano, che è poi uguale ad esserlo a Bologna, Roma o a Tortoreto Lido. Per i maschietti, capello che va dal classico taglio delle Schutzstaffel alla chioma di Eddie Vedder, corredato da barba d’ordinanza ben potata, giacche à la Coez foderate con pelo sintetico o cappotto leggero indicatissimo per l’inverno del settentrione. A concludere pantalone strappato sicuramente facendo skate da fermi e scarpa che va dalla Vans old school al Dottor Martens alto. Per le donne stessa roba ma senza barba e qualche tocco di “originalità” in più (vedi alla voce capello con frange e caschetto). Ci sentiamo fuori posto.
Posiamo i giubbotti al guardaroba, prendiamo una birra e ci mettiamo tranquilli ad attendere in buona posizione che inizi il concerto, meditando sul fatto che per giacca e bevanda abbiamo speso la stessa cifra del biglietto. Sentendoci un po’ derubati accogliamo un tizio che di lì a poco avremmo imparato ad amare.
Atto III o “Einstein aveva ragione”
Si chiama Davide Petrella, il suo compito è di aprire il concerto dei Canova e non abbiamo la più pallida idea di chi sia. E siamo gli unici, evidentemente. C’è gente che fa dirette video, canta a squarciagola, piange, applaude e noi capiamo cosa deve provare un genitore al giorno d’oggi quando accompagna il figlio tredicenne al concerto di Rovazzi. Testi mediocri, musica buona ed un entusiasmo incontenibile caratterizzano il simpatico Davide, che dedica una canzone ad Einstein, che a suo dire 50 anni fa tondi tondi ha inventato le onde gravitazionali. Sarà come dice lui. Noi lo facevamo già un po’ morto all’epoca. In mezz’ora ce la caviamo e i Canova fanno il loro ingresso. Attaccano alla grande. Suonano bene e alternano frasi tipo “grazie [inserire la città desiderata], questo concerto è davvero speciale per noi” ai loro pezzi. E così i primi 6 scivolano via portando con sé la nostra voce. Un momento. I primi 6? Erano passati 20 minuti e matematicamente parlando eravamo al 54,54% del concerto, considerando che l’album ha 11 tracce. Inizia a serpeggiare il panico nei nostri cuori. Ma ecco che tutta l’esperienza maturata nella gavetta fatta di locali poco affollati, birre calde e amici costretti a fare da pubblico viene fuori. Piazzano delle cover! Bella mossa, ma è tutto qua quello che sapete fare? No, non era tutto lì. Inaspettatamente spunta sul palco niente popò di meno che Brunori Sas, che si regala 10 minuti di applausi e reggiseni lanciati e regala a noi 2 bei pezzi del suo repertorio. Siamo spiazzati e coinvolti. Mi faccio talmente trascinare che inizio a fare dirette Instagram con meno spettatori di “Non è l’arena”. Si finisce con il pezzo con cui avevano iniziato e via, tutti a schiacciarsi in coda per il guardaroba e poi in macchina, direzione casa.
Epilogo onesto.
I Canova sono un gruppo che suona davvero bene. Tengono il palco alla grande, interagiscono con il pubblico il giusto e hanno sfornato un album con pezzi orecchiabili, gradevoli e che fanno breccia presto nel cuore di chi li ascolta.
Il sold out di ieri è significativo, così come il fatto che dopo il lungo tour estivo si siano lanciati in uno nuovo, più breve ma di altrettanto successo. Insomma, si stanno godendo la popolarità che meritano.
Il rischio che possano vendere anima e strumenti al circuito main stream, come Tommasone e i suoi giornalettisti c’è sempre, ma spero che ciò avvenga il più tardi possibile e che possano rimanere selvaggiamente educati ancora per un po’. Ringrazio Simone e Mary per la loro compagnia.
© Marco Patrito