Io suonavo e lei voltava le pagine ma accadeva anche il contrario: lei pigiava sui tasti e io giravo i fogli. Quel pomeriggio ci eravamo esercitati a lungo perché la sera stessa ci sarebbe stato il saggio di fine anno e io volevo fare bene. Il pianoforte era un mezza coda nero ed era la prima volta che ne provavo uno. Lei invece, Eleonora, a casa ne aveva due dello stesso modello.
Nel programma risultavo essere l’ultimo. Era un motivo d’orgoglio suonare alla fine, dopo di me c’era solo l’ospite d’onore, di solito un concertista. Per arrivare così in alto avevo studiato parecchio. I primi due anni il mio nome compariva nella pagina sinistra del programma, nel terzo passai a destra, dal quarto mi posizionai stabile all’ultimo posto, dopo Eleonora.
Lei aveva qualche giustificazione. Aveva iniziato a studiare molti anni prima di me però il pianoforte non era mai stata una vera passione. Era più che altro un dovere perché così aveva fatto sua madre, prima ancora sua nonna e certamente pure la bisnonna. Poi studiava molto a scuola, praticava equitazione, tennis e scherma. Io di tutto questo non facevo nulla, suonavo e basta.
Dopo esserci esercitati a lungo lei uscì dal teatro, si appoggiò al muro e accese una sigaretta. Sollevò il mento in alto aspirò una boccata così lunga da far comparire le fossette sulle guance, poi soffiò fuori.
La spense quasi subito schiacciandola con la punta delle All Stars.
Mi piaceva. Mi piacevano i suoi jeans, le scarpe consumate, la camicetta con le trasparenze, i capelli biondi che talvolta avevano il colore del miele.
Cinque ore dopo era ancora più bella. Sedeva sullo sgabello ed eseguiva un pezzo di Beethoven. Mi attardavo a osservare il piede quando premeva il pedale del forte e sentivo un colpo al cuore quando il piede stesso, avvolto da una calzatura con il tacco a stiletto, saettava all’indietro. Ammiravo la danza delle dita sulla tastiera, la generosa scollatura, i capelli avvolti sulla nuca e ogni tanto le giravo la pagina.
Poi, durante un passaggio poco impegnativo, lei corrucciò la fronte e pure le labbra, come se fosse stata presa da un improvviso e impagabile piacere. Strabuzzò addirittura gli occhi e mi persi in questa visione, dimentico del tutto che era mio dovere girare le pagine.
Si arrangiò da sola, senza incespicare. Le chiesi scusa sottovoce, lei ricambiò con un sorriso. Ma alla pagina successiva fu previdente: arrivata all’ultimo rigo, con il tacco delle scarpe mi diede una punzonata sul piede.
© Paolo Perlini
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