GRANDE NO: "GIPSY"
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Vi capita mai di iniziare una serie tv, trovarla orribile e non riuscire a smettere di guardarla?
Come se fosse una questione di principio quasi. Una missione.
Come se i diritti del lettore di Pennac non fossero applicabili al campo visivo.
E come se ci si sentisse in colpa perché all’alba della quarta puntata hai più minuti di sonno accumulati che reazioni alla visione, ma soprattutto nella migliore delle ipotesi hai buttato al vento almeno quattro ore preziose di vita che nessuno ti restituirà.
Le serie tv brutte sono come le relazioni tossiche: a volte non riesci a lasciarle perché pensi sempre (ottimistaaa!) che ci sia un po’ di buono in loro.
“Non importa se otto puntate su dieci fanno schifo, sicuramente le ultime due sono una bomba!”
E invece NO! Dopo dieci puntate stai con lo sguardo vitreo sul televisore e ti maledici per non aver ceduto a quella riflessione che avevi fatto alla puntata quattro, quando ancora eri in tempo.
Capita, dai. Non prendertela.
Di recente la mia relazione tossica si è chiamata “Gipsy”. Trailer con un po’ di tensione, trama interessante, prodotto da Netflix e, dulcis in fundo, Naomi Watts. E se c’è qualcuno in sala che pensa che non basti Naomi Watts per affrontare una sfida...fuori grazie.
Vabbè, scherzi a parte, la trama era davvero promettente: una terapista che comincia delle pericolose relazioni intime con le persone che fanno parte delle vite dei suoi pazienti.
FIGATA!
E invece no.
Lentezza e prevedibilità a parte, la cosa che più fa soffrire di "Gipsy" è la completa mancanza di struttura narrativa. Non ha senso. E no, non basta la storia omosessuale a fare rumore e a reggere l’intreccio, signori. Non bastano due belle signorine perché se a queste belle signorine fai pronunciare delle battute scritte da un cane ecco che a noi non basta. Insomma, nemmeno Naomi è riuscita nella grande impresa di salvare questa serie che è stata cancellata da Netflix dopo nemmeno un mese dall’uscita, nonostante la sua performance indiscutibile.
“Grande no” travestito da “grande sì”. Capita.
GRANDE Sì: "NARCOS"
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E per fortuna che dopo la tempesta, il sole esiste per tutti. Ed è come un raggio di sole e di speranza che aprendo Netflix si presenta a tutto schermo il faccione di Pedro Pascal e quelle sei lettere che ti fanno quasi commuovere di felicità: “NARCOS”.
Le prime due stagioni sembravano essere tenute in piedi soltanto dall’enorme personaggio di Pablo Escobar e forse era davvero così. Sapevamo che non ci sarebbe stato nella terza stagione e la cosa ci spaventava un po'. Ma da Medellin a Cali la strada era bella che spianata e in fondo ad aspettarci c'erano i gentleman di Cali che non sono stati di certo inferiori.
"Narcos" è una di quelle serie che ti tiene incollata al divano e ti sembra di vederla in realtà aumentata: ad ogni sparatoria ti copri la testa come se un proiettile ti si dovesse infilare nel cranio da un momento all'altro.
I cattivi sono affascinanti, primo su tutti Pacho Herrera che è bello, stiloso, kitsch e splendidamente crudele. C'è la droga, le pupe, le pallottole, l'effetto documentario, il narratore, gli intrighi, la corruzione, la DEA (che tanto ci ricorda "Breaking Bad" - mano sul cuore-) e lo spagnolo.
Sì, con Narcos è inevitabile iniziare a rivolgersi in spagnolo ai tuoi amici dopo sole poche puntate. “Plata o plomo” diventa uno stile di vita e gli insulti hanno tutto un altro sapore.
La terza stagione è lievemente inferiore alle precedenti e sì, va ammesso, Pablo Escobar non è sostituibile. Ma alle prime due note della sigla vi sfido a non avere il cuore in gola.
soy el fuego que arde tu piel
soy el agua que mata tu sed
el castillo, la torre yo soy
la espada que guarda el caudal
Per me è un grande sì anche stavolta.
© Giulia Cristofori