Al titolo “The Omen – Il Presagio” la prima cosa che collego è, ahimè, il pietoso remake uscito con la geniale trovata di marketing il 06/06/06.
Tremendo.
Le mie amiche nel pieno periodo “vediamoci un horror che fa figo” mi hanno trascinato prima al pessimo remake di Amityville Horror e poi a quello di “The Omen”. Inutile dire che le mie amiche non hanno mai più scelto un film al cinema in mia presenza.
All’epoca non badavo alla qualità, non mi preoccupavo di documentarmi sugli originali.
Poi grazie al cielo sono cresciuta.
Il secondo ricordo che lego a questa pellicola di fine anni 70, tratta da un romanzo di David Seltzer, è l’inizio di un’amicizia che va avanti ormai da un po’ di anni. Un’amicizia un po’ speciale che è stata il perno definitivo del mio avvicinamento al genere. Sì, Iaia si è presentata come “Damien in gonnella con i rottweiler al guinzaglio” e la cosa mi ha fatto sorridere.
All’epoca, però, non conoscevo bene Damien e le sue adorabili bestiole.
Siamo di nuovo immersi nel nero.
E anche se il film è a colori, all’occhio attento dello spettatore arriva una carrellata di bianchi e neri.
La storia racconta di un diplomatico statunitense che si trova ad affrontare la morte del figlio subito dopo la nascita, quando un parroco gli offre di scambiare il figlio morto con un altro nato contemporaneamente al suo, rimasto orfano perché la madre è morta di parto.
Robert Thorn accetta e, inconsapevolmente, si ritrova fra le braccia Damien. L’Anticristo.
Il film si apre a Roma. E quale posto migliore, nella Capitale, del Quartiere Coppedè? Per un romano (anche di adozione, non importa) scatta subito un sorriso. La fontana, il lampadario appeso alla volta, il palazzo di Piazza Mincio. Il Quartiere Coppedè diventa luogo simbolo degli orrori quando scopriamo che anche Dario Argento lo sceglie anni prima per il suo “L’uccello dalle piume di cristallo” e qualche anno dopo vi ritorna con “Inferno”.
La forza di Omen è questa continua contrapposizione di bianchi e neri, visivi e psicologici.
Damien ha la pelle pallidissima, è un bambino dagli occhi grandi e dolci. Lo vediamo sempre vestito di nero ad accentuare la contrapposizione fra il suo apparente candore e la sua vera natura.
È nel momento del suo quinto compleanno che Damien riceve in regalo il sacrificio della sua tata. La ragazza, infatti, si impicca davanti a tutti “dedicando” il suo gesto al bambino. Inizia una corsa scatenata sul triciclo dell’orrore, fatta di morti che possono sembrare accidentali e fotografie segnate da simboli demoniaci.
Interessante l’aspetto della fotografia, infatti. Rigorosamente in bianco e nero, ogni morte ha il suo annuncio sulla pellicola di un ignaro fotografo che si ritrova spesso sui luoghi dei decessi, dall’alone nero a forma di cappio intorno al collo della baby sitter al segno nero che trafigge il parroco fino ad arrivare al simbolo di imminente decapitazione su un autoritratto del fotografo stesso.
Ma anche in questo caso la domanda che arriviamo a farci è: è davvero cattivo Damien? D’altronde è solo un bambino, no?
Un bambino che porta il marchio della bestia, una voglia a forma di 666, sotto i capelli.
Ed è proprio nel contrasto tra il candore simbolico dell’infanzia, sottolineato dalla pelle chiarissima e dagli occhi luminosi di Damien che la tenebra appare più profonda e impenetrabile. Il chiarore di alcuni dettagli non fa che esaltare il nero, il buio, le ombre, che in questo film sono scelte per essere forti e nette, quasi fumettistiche nei momenti più intensi della trama. E la scena che più di tutte racchiude questo conflitto di opposti è quella del sorriso di Damien, una bocca chiusa che si dispiega in angoli ambigui, sormontata da occhi brillanti e raggelanti nel loro rivelare l’esito di questa lotta tra luce e buio. Sarà il nero a predominare stavolta. Un sorriso di cupa e ineluttabile confidenza, nel volto armonioso e pulito di un bambino.
La componente religiosa, come in altri film di grande successo (ad esempio L’Esorcista), è molto evidente. L’Anticristo strilla per non entrare in chiesa, travestendo il suo terrore da capriccio di bambino piccolo e indifeso, e necessita di essere ucciso proprio in una chiesa consacrata. E nel numero 666 troviamo un altro importante riferimento alla numerologia religiosa. Nella simbologia cristiana infatti il 3 diventa simbolo della Trinità, poi seguono un po’ di calcoli senza troppo senso (Dio non me ne voglia e neanche Satana) e con una piccola lezione matematica si arriva a definire che:
3+3+3 = 9 e quindi il 9 è il numero della perfezione. 999, quindi se di Trinità si parla.
E allora non resta che capovolgere i 999 per ottenere il 666. La perfezione dell’altro lato. Satana.
Impossibile non rimanere segnati anche dalla colonna sonora, vincitrice della categoria agli Oscar del 1977.
Ave Satani riecheggerà nei nostri cervelli fino alla fine dei tempi. L’asprezza di alcuni passaggi e la tensione delle note, chiara e irresistibile esortazione dei battiti cardiaci, sono decisive nella composizione del film almeno quanto i chiaroscuri taglienti. (Potrà sembrare scontato che la colonna sonora rivesta un ruolo fondamentale nella caratterizzazione di una storia ma mai come in questo genere cinematografico si rischia di cadere nella banalità più atroce di ritmi visivi e uditivi forzatamente incalzanti e di bassa qualità. Con risultati imbarazzanti e infamanti per l’intera categoria.)
Un altro messaggio che ci regala questo caposaldo dell’orrore è un messaggio prettamente politico. Un bambino che scala il potere istituzionale senza scrupoli e senza pietà ci fa capire che: il potere è il male. Il potere è il fine di tutto, la viscidità delle bestie dominanti che opprimono ogni popolo. La gloria e la sete. Il potere Temporale e quello Spirituale.
E, come in Rosemary’s Baby, ci ritroviamo inermi davanti all’unica scelta possibile, schiacciati dalla claustrofobia della mancanza di una via di fuga: l’accettazione.
Anche stavolta la vittoria di una delle parti schierate è solo relativa e, come osservando un grande Taijitu, ci ritroviamo a valutare di nuovo il peso dei bianchi e dei neri.
Consapevoli che dove c’è bianco c’è nero e viceversa.
Che la luce nasce dove c’è il buio e che noi siamo solo pedine di un gioco più grande. Ci muoviamo come scacchi in una partita sanguinosa fatta di guerre e dolore. Come se la vita fosse un vero e proprio purgatorio che ci conduce all’accettazione della strada che percorreremo dopo.
E mentre guardiamo Damien seppellire i genitori ed essere affidato alla famiglia del Presidente degli Stati Uniti sorridiamo.
In quel restringimento di campo sul suo sorriso diabolico finiamo per arrenderci.
© Giulia Cristofori e Ombretta Blasucci