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Pensavo di sapere tutto sui Beatles e credevo che Eight Days A Week sarebbe stato l’ennesimo documentario celebrativo che poco aggiunge alla magnifica storia dei ragazzi di Liverpool. Invece mi sbagliavo di grosso.
E questa, se ci pensiamo bene, è un’ulteriore prova di grandezza dei Fab Four che, a distanza di più di mezzo secolo, lasciano ancora a bocca aperta il pubblico, anche davanti ad uno schermo. Durante le due ore abbondanti di visone vengono fuori aspetti caratteriali dei protagonisti che troppo spesso sono stati trascurati o non approfonditi adeguatamente. John, Ringo, Paul e George, in maniera diversa ed ognuno con le sue peculiarità, erano delle personalità assolutamente dominanti che quando era il momento di prendere delle decisioni diventavano una sola cosa: i Beatles, appunto. Così ci trova a guardare filmati d’epoca che immortalano 4 ragazzi inglesi catapultati negli USA, dove scoprono di essere già delle star venerate e braccate dal pubblico, che gestiscono la loro inaspettata popolarità in maniera sorprendente per la loro giovane età. Nonostante siano poco più che ventenni, tengono a bada schiere di giornalisti durante le conferenze stampa con la loro ironia e la loro presenza scenica, prendendo anche posizione contro il razzismo senza porsi il problema della reazione che avrebbe comportato tale scelta nell’ America degli anni ’60. Vivevano la popolarità, che li rendeva prigionieri e che dopotutto ne decretò la fine, con una leggerezza probabilmente frutto della loro incoscienza giovanile che dovrebbe far riflettere molte star (o presunte tali) di questi tempi. Poi arrivano i filmati più belli ed emozionanti, quelli che ritraggono la band mentre ricarica le batterie, fra un tour e l’altro, facendo quello che preferiva: chiudersi in studio e registrare nuovi pezzi. E qui entra in gioco la magia della musica, si torna a parlare del vero motivo che fa dei Beatles il più grande gruppo della storia, si ha la possibilità di vedere come sono nate canzoni che resteranno immortali. Canzoni create da 4 ragazzi che erano grandi artisti prima che personaggi, uniti da un’alchimia unica che ha dato vita a qualcosa di irripetibile, perché per trovare una qualità compositiva così alta e così vasta bisogna davvero scomodare i grandi compositori del passato.
In Eight Day A Week c’è tutto questo e molto altro: guardando quei filmati e riascoltando le storiche canzoni, ogni spettatore può trovare sempre qualcosa di nuovo. Il grande merito del regista Ron Howard è aver mostrato senza mistificazioni le reali dimensioni del fenomeno Beatles, un fenomeno fatto di grande musica, deliri collettivi e isterismi senza precedenti che, in un’epoca dove non esistevano internet e la televisione via cavo e l’informazione non era in tempo reale come oggi, ha raggiunto tutto il pianeta mettendo d’accordo persone di culture diverse, di ceti sociali a volte in lotta fra loro. Non esistevano i ricchi, i poveri, i bianchi, i neri: c’erano solo i fan dei Beatles, la band che ha cambiato tutto.
La sensazione più bella che si ha guardando il film, e suppongo sia anche lo scopo principale del regista, è sentirsi partecipi di tutto questo, riuscire ad immaginare per un attimo cosa significasse vivere quel delirio collettivo apparentemente inspiegabile, vivere qualcosa che è rimasto nella storia. Perché i Beatles non sono stati la colonna sonora di un disagio sociale, come fu il blues prima di loro, o i portavoce di un movimento culturale, di una rivoluzione, come successe per il punk negli anni ’70: i Beatles sono stati LA RIVOLUZIONE, dopo di loro il music business non è stato mai più lo stesso.
E mentre John, Ringo, Paul e George salutano il pubblico, suonando insieme per l’ultima volta sul tetto di “quel” palazzo (il tetto del loro quartier generale, la Apple Records, al numero 3 di Savile Row, a Londra) e il film si avvia alla conclusione, ti sale la malinconia, ma non perché conosciamo il finale della storia, bensì perché è chiaro che non avremo più la possibilità di vivere qualcosa del genere: non ci sarà mai un’altra band più famosa di Gesù.
© Luca Cameli