È lento il terrore. Lento come la discesa all’inferno di Regan MacNeil.
Avevo quindici anni la prima volta.
Come tutte le cose amate e odiate, avevo paura di affrontare questa visione da sola ma ne sentivo il bisogno. Così ho chiesto (leggi: implorato) a un’amica di stare con me mentre vedevo per la prima volta "L’Esorcista" in versione integrale. Lei ha accettato, ma a una condizione: avrebbe tenuto le cuffie nelle orecchie con la musica altissima e gli occhi chiusi per l’intera durata del film. Ed è così che è andata. Complice questa buffa soluzione e la spavalderia dei quindici anni, all’epoca il film mi fece a malapena il solletico. Ebbene sì, ero parte della fazione “mah pensavo peggio, non fa assolutamente paura! Non succede niente per un’ora e mezza!”.
Poi l’ho rivisto qualche sera fa. Quasi quindici anni dopo. E no, non è vero che non fa paura.
Portato sullo schermo nel 1973 da William Friedkin, basato su un romanzo di William Peter Blatty, "L’Esorcista" diventa la colonna portante del genere horror nei secoli dei secoli amen.
Chi non ha mai visto almeno qualche frame con la faccetta sfregiata dell’immensa Linda Blair? Nessuno suppongo.
È la storia di Regan, dodicenne che si trova ad affrontare i problemi derivati dalla separazione dei genitori e che, a un certo punto, inizia a dare segni di squilibrio che vengono definiti dai medici come semplice disturbo neurologico. In concomitanza agli strani atteggiamenti di Regan, una statua della Madonna viene sfregiata e un uomo viene trovato morto con la testa completamente ruotata.
Anche in questa pellicola il colore che fa da padrone è il nero. Ci troviamo spesso in penombra, nella camera da letto della ragazzina posseduta o ci affacciamo nel solaio alla ricerca di topi rumorosi insieme alla mamma della bambina. Neri gli abiti clericali e neri gli occhi vuoti di Regan (prima di diventare irrimediabilmente gialli).
Terrificanti e persecutrici le apparizioni di Capitan Howdy, nome con cui il demone Pazuzu di presenta a Regan, per rimarcare che il male ormai è entrato e segue ogni tuo passo, spiandoti la nuca dalla cappa antifumo, affacciandosi sempre più prepotentemente nei lineamenti stravolti della ragazzina.
Quel viso sospeso nel nero in modo quasi casuale, estemporaneo, è un dettaglio a tratti difficile da cogliere. Ma ripetendo la visione di questo film, che a distanza di anni continua ad esercitare un’attrazione invincibile, quei frame rapidi diventano attesa e scommessa, un punto cardine nello spettro visibile del film, un appuntamento mai disatteso con Pazuzu.
Ma la cosa più nera e spaventosa del film è: "Tubular Bells" di Mike Oldfield.
Un pezzo quasi ipnotico che riesce a farti vibrare dalla testa ai piedi in preda a brividi incontrollabili. Così mentre quei campanelli si infilano nelle nostre tempie con insistenza, rimaniamo sconcertati davanti alla trasformazione di Regan fra teste rotate e vomito verde. Ma è così ridicolo quel vomito verde palesemente finto, come direbbe un ragazzino di quindici anni delle nuove generazioni? Fa così ridere quella ragazzina che come un ragno meccanico scende le scale al contrario e vomita sangue palesemente finto (che tanto ricorda il famoso “rosso Argento”, quel sangue fintissimo che sembra quasi vernice di cui abusa il buon Dario nei suoi lavori)? È così divertente vedere una ragazzina sfregiata masturbarsi con un crocifisso fino a ricoprirsi di sangue?
È vero, forse a quindici anni non ci pensi a quanto agghiacciante sia perché con tutta probabilità sei ancora nell’età in cui dire le parolacce fa figo davanti ai tuoi amici. Ma dopo? Dopo terrorizza ed è giusto che sia così.
Gli effetti speciali sono da contestualizzare al periodo, si parla di inizio anni ’70 quindi, proprio per questo, ci troviamo di fronte a un lavoro magistrale. "L’Esorcista" è la prova che non serve calcare la mano su quello che si vede, ma che bastano dei tagli in faccia e dei flash che raffigurano il volto del demonio per farci provare paura. Quella paura che nasce di fronte ad eventi che potrebbero essere reali. La paura di un letto che si muove e l’ombra della malattia (e no, a quindici anni non ero abbastanza ipocondriaca per capire che la malattia fa paura) che si rivela essere tutt’altro.
Anche in questo film il messaggio più forte è quello religioso. D’altronde ci troviamo sempre a parlare della nemesi di Dio, quindi è normale che il filo conduttore sia proprio l’eterna lotta fra Dio e Satana.
Al contrario dei classici film horror, qua il Demonio si fa sentire dall’alto (dal solaio) e non dalla solita cantina dove corre lo scemo di turno e ci rimane secco. Non credo sia una scelta casuale, ma piuttosto sono convinta sia un modo in più per accentuare la metafora religiosa. Dio che sta nell’alto dei cieli è sostituito dal Demonio che s’innalza e domina sull’innocenza e la speranza.
In parallelo alla vicenda di Regan si svolgono le storie dei due sacerdoti esorcisti. Padre Merrin è un sacerdote anziano che ritrova una statuetta raffigurante il demone Pazuzu durante gli scavi in un sito archeologico del nord Iraq e ne rimane sconvolto, mentre padre Karrass è un giovane gesuita che si ritrova a fare i conti con il senso di colpa dovuto alla perdita della madre e la conseguente perdita della fede.
Saranno i due sacerdoti ad affrontare l’esorcismo finale sulla piccola indemoniata, ritrovandosi a fronteggiare debolezze fisiche e mentali imposte dal demone. Una specie di penitenza dove i due devono chiamare a raccolta tutta la fede di cui dispongono per salvare la ragazzina e cercare di salvare le loro anime.
L’Esorcista è diventato nel tempo grande fonte di ispirazione per numerosi film e serie tv.
Ne vorrei citare due che meritano tutta la vostra attenzione: "L’esorcismo di Emily Rose", uscito nel 2005 e basato su un’agghiacciante storia vera è un buon film (sempre tenendo in conto della spazzatura prodotta per il genere horror negli ultimi dieci anni). Gli effetti speciali sono ridotti all’osso e si lavora molto sull’aspetto psicologico di Emily Rose, interpretata da una bravissima Jennifer Carpenter (che abbiamo poi avuto occasione di amare nei panni di Debra Morgan, nella serie "Dexter").
Dulcis in fundo vorrei esprimere tutto il mio amore e la mia venerazione per "Penny Dreadful". In particolare la prima stagione si ispira moltissimo alla pellicola di Friedkin. Il personaggio di Vanessa Ives, quasi ossessionato dalla fede che via via lascia sempre più spazio alla possessione e alla perdita della luce ci ricorda tantissimo il film.
A voi lascio la visione dell’immensa Eva Green che riesce a reggere una scena di venti minuti in piedi su un tavolo durante una seduta spiritica. Non dico altro se non: da Oscar.
Detto questo: siete pronti a sentir tremare il vostro letto stanotte?
© Giulia Cristofori © Ombretta Blasucci