CrunchEd ha un’ossessione per questo periodo dell’anno, è bene che lo sappiate subito. Il motivo è molto semplice: autunno, halloween, vento che si intensifica, pioggia, foglie che tremano, buio che avanza. Condizioni perfette per circondarsi di una fioritura di visioni e orrori che non sempre ci si concede in altri momenti dell’anno.
Abbiamo deciso all’unanimità (in due, perché amiamo il genere) di pescare nel passato, poiché anche lì l’oscurità può farsi fitta e riemergere con momenti e trame e soprattutto scene che si fanno ancora più vivide e vicine in questa stagione.
Ad unire questa danza delle memorie sarà un colore. E non si può non cominciare dal colore definitivo di Halloween: il nero. Buio e luogo misterioso di origine e nascita ma anche di annichilimento, terrore e fine di ogni cosa.
Terminata la premessa, potete seguire Giulia nella discesa tra ragnatele di ricordi.
Il mio rapporto con gli horror è un rapporto difficile. È sempre stato difficile, fin dalla tenera infanzia.
Con difficile non intendo di paura o rifiuto o disgusto. Intendo un rapporto di amore-odio che è evoluto nel tempo.
Quando ero bambina ero fifona, avevo paura del buio e dei mostri ma i primi libri che ho comprato sono stati i "Piccoli Brividi". Perché dei mostri avevo paura ma mi attiravano come il sangue attira gli squali.
A 8 anni ho vomitato mentre mio zio mi tagliava i capelli perché in tv c'era Dracula di Bram Stoker e a me faceva impressione la bestia china su Lucy, sporca di sangue.
Poi c'è stato Nightmare, il preferito di mamma, guardato un pomeriggio con le amichette e i traumi inflitti, le notti insonni con le gambe rannicchiate per non sentirmi tirare i piedi dal fondo del letto.
Poi a 14, le notti d'agosto passate a divorare pagine di Stephen King con la lucetta sotto le lenzuola. I brividi e i nervi sempre tesi ad ogni rumore.
Poi sono diventata grande e ho capito che ero fatta di bianco e di nero e che anche la parte nera aveva bisogno di esprimersi.
Complici le amiche appassionate, ho iniziato ad avvicinarmi a qualche classico, perché è vero che nell'ultimo decennio non abbiano sfornato capolavori ma piuttosto accozzaglie di splatter esasperato e disperati tentativi di remake ed emulazioni mal riuscite (ad esempio Omen, Amytiville Horror, Carrie, ecc).
Halloween è diventata quasi una scusa per far parlare tutte quelle ombre che convivono nel mio cervello insieme (e in armonia) a dolcissimi unicorni rosa. Quindi all’ingresso di ottobre, ogni anno ormai da un po’ di anni, si dà inizio ad un vortice di visioni horror per calarsi alla perfezione nel mese che si chiude con la notte di Ognissanti.
Il primo classico di cui voglio raccontare è Rosemary's Baby, pellicola non proprio etichettabile come horror ma, per fare un paragone con l'universo fumettistico, definibile come la Graphic Novel del cinema.
Roman Polansky è infatti riuscito a dare vita, nel 1968, ad un film pazzesco “sui generis”. Non è un horror, non è un dramma, non è un thriller. Rosemary’s Baby è tutto questo e anche di più.
Rosemary Woodhouse e suo marito Gud, un attore di scarso successo, si trasferiscono a New York. Nella loro vita piombano i coniugi Castevet, vicini di casa bizzarri e impiccioni che sembrano legare molto con Gud. Rosemary rimane incinta e Gud diventa improvvisamente famoso. È in quel momento che Rosemary sospetta che il marito abbia promesso il loro bambino ad una setta di adoratori di Satana in cambio della celebrità.
Polansky ci spinge giù per una tromba di scale per stordirci, senza rivelarci mai nulla. Non ci lascia vedere e ci imprigiona nel posto più pericoloso e sconosciuto: la nostra mente.
Ci ritroviamo a canticchiare in maniera ossessiva quella nenia che il regista ci ripropone in apertura e chiusura del film.
Composta da Krzysztof Komeda, “Rosemary’s Lullaby” è interpretata dalla stessa Mia Farrow nella versione originale.
Navighiamo in una sequenza di incubi e visioni senza capire se si tratta di realtà o di sogno.
È il seme del dubbio che ci tiene incollati allo schermo, divorati dall’ansia, mentre cerchiamo di capire se è Rosemary ad essere pazza oppure se la verità è un’altra.
È così che l'horror è diventato quasi una vera e propria accettazione della mia parte oscura.
Proprio come Rosemary si ritrova ad accettare il suo triste destino: cullare il figlio di Satana in una culla nera.
È qui che Ombretta entra a gamba tesa.
Perché è proprio su questa scena che intendiamo soffermarci. Il primo frammento dei quattro che ci porteranno a superare anche questo Ottobre, perdendo una foglia alla volta per i brividi del freddo che avanza e della tensione provocata da queste visioni, in attesa dell’inverno. E il nero è quello della culla in cui la verità si manifesta, a discapito di ogni speranza di redenzione, aprendo un futuro altrettanto oscuro. Rosemary non rifiuta la rivelazione finale, non fugge più. Le opportunità di salvezza non sono state afferrate in tempo. Apre gli occhi, si avvicina all’orlo del burrone a forma di culla e guarda giù. Come rifiutare un destino diametralmente opposto a quello sognato ma che, per intensità, si preannuncia essere tanto atteso e ancor più glorioso? L’avvento di Satana e l’inizio di una nuova era. Mai come in questo genere di film ciò che è giusto e ciò che è sbagliato sono inerti punti di vista, segnali la cui differenza è solo il colore, scelto a caso, su una tavola da gioco instabile, pronti ad essere rovesciati e mescolati ad ogni frame.
Nella sua alterazione (e nella nostra pazzia) quello di Rosemary’s Baby è un lieto fine.
A Giulia la conclusione di questa estemporanea immersione nel nero appena nato che, nelle prossime settimane, vedrà la sua crescita delirante, fino ad occupare ogni spazio millimetrico del nostro campo visivo immaginario.
Rosemary’s Baby è un capolavoro d’altri tempi, fuori da ogni genere e ogni schema.
Si pianterà lì, in fondo, nel profondo del nostro cervello proprio come quella ninna nanna nera che tormenterà ogni vostro sonno.
Si farà spazio nella mente, proprio come quel dubbio e ci lascerà nel limbo fra sogno e realtà a chiederci cosa sia uno e cosa l’altro.
E non ci resterà che accettare la realtà e l’evidenza. Non ci resterà che accettare il destino.
E soprattutto finiremo per accettare noi stessi e ogni nostra ombra.
© Giulia Cristofori e Ombretta Blasucci