“When I met you
I could not speak
I met you
Then I met you
My spirit rose (Your feelings again)
My kind of truth (You’re drowning in pain)
(…)
When I met you
I was too insane
Could not trust a thing
I was off my head
I was filled with truth
It was not God’s truth
Before I met you”
(When i met you – Bowie Ep, 8 gennaio 2017)
Quando ti ho incontrato non riuscivo a parlare, ero troppo folle e fuori di testa. Piena di verità mie, fallaci. Ma non conoscevo certo la Verità, quella di Dio.
Poi ti ho incontrato, il mio spirito è rinato, mi hai resa felice. Improvvisamente le stelle sono sembrate molto diverse. E niente è stato più lo stesso.
© Floria Sigismondi
Era il 1997 la prima volta che ti vidi. Avevo 13 anni, scintille nelle mani e per la testa sogni enormi e morbidi come Marshmallow Man, il gigante fantasma bianco e soffice dei Ghostbusters. Sogni in grande, di quelli che puoi fare solo quando sei sufficientemente incosciente da volerti spingere più in là di quanto tu possa immaginare, sufficientemente inesperto da non sentire la paura e l’amaro di una vita che da adolescente non puoi aver vissuto e che, poi, abbasserà inevitabilmente l’asticella dei tuoi sogni quando cresci.
Avevo 13 anni, molta acne e autostima rasente il pavimento del terrazzo sul quale mi stendevo per guardare il cielo in attesa di una stella cadente che confermasse quell’idea che “sì, il sogno si avvererà”, che mi desse la fiducia che a scuola non avevo.
Timida, taciturna (chi mi conosce ora non lo direbbe, lo so), sempre in un angolo a disegnare occhi e piramidi o a cercare di non farmi beccare mentre a lezione provavo a non far sentire quel “frrrr” – fortissimo - che il rewind del walkman faceva quando volevo risentire un pezzo dei Backstreet Boys. Considerata diversa, semplicemente.
L’unica cosa che, però, credi davvero sia vitale quando hai quell’età, è circondarti di amici (o presunti tali), sentirti accettata. A discapito delle piramidi, del walkman, delle stelle cadenti.
Così le matite da disegno lasciarono ben presto il posto alle matite per gli occhi, che dio solo sa l’odio che una fortemente miope può provare per le matite nuove, quando per metterle devi avvicinare la faccia allo specchio ma la matita è troppo lunga, finisce che lei sbatte sul vetro e tu ti ciechi. Da che mi nascondevo per proteggere i miei sogni e viverli in pace, finii per nascondere i miei e vivere quelli degli altri.
Poi una sera beccai in tv il video di “Little Wonder”, girato da Floria Sigismondi (e figuriamoci se io a 13 anni sapevo chi fossi tu e chi fosse Floria), e rimasi completamente stregata dai tuoi occhi, dai tuoi movimenti quasi rettiliani, da tutto quel macabro e insieme vita, da quei suoni così metallici, completamente distanti dal mio orecchio abituato al boy pop dell’epoca.
Quando poi seppi che saresti stato ospite a Sanremo ‘97, beh, sveglia puntata, registratore acceso, telecomando rubato. Salisti sul palco in tutta la tua androgina bellezza tra tutte quelle giacche inamidate e i capelli cotonati, emanando una luce aliena che credo di non aver più visto da che ho memoria.
E boom.
Fosti come una stella cadente, una conferma per quella ragazzina che sognava di poter essere lei, semplicemente. Un canto corale e ancestrale di una generazione che vuole urlare la propria diversità per riconoscerla come ricchezza del mondo.
Il resto poi è storia, la mia. E insieme ho scoperto la tua.
Sono passati 365 giorni da quando sei tornato tra le stelle cadenti. 366, per la precisione.
2016, bisestile. Dovevamo capirlo subito. I numeri pari, la finta perfezione, non portano mai nulla di buono.
Ricordo ancora la sensazione di quella mattina del 10 gennaio di un anno fa, la morsa alla gola con cui mi sono svegliata. Non so perché ma accesi il pc sapendo che di lì a poco avrei scoperto qualcosa di orribile.
Non riuscivo a crederci. Tu. Volato via asciutto e inaspettato come una notte di San Lorenzo senza stelle cadenti.
Sono passati 366 giorni. Da allora il mondo ti ha celebrato in ogni angolo del globo attraverso flash mob, fiaccolate, opere di street art a Londra, Berlino - la tua Berlino - , omaggi durante eventi importanti come i Grammy Awards e i Brit Awards, mostre d’illustrazione - ringraziamenti a matita e colori da parte di chi della tua arte si è nutrito - toccanti e celebrative come la nostrana Bowie Blackstardust.
E poi musical, il tuo “Lazarus” fortemente voluto prima della tua morte e finalmente portato in scena al King’s cross Theatre di Londra in ottobre.
Infine, celebrazioni sottoforma di retrospettive itineranti, originali e totalmente immersive nel tuo universo sconfinato come l’appena conclusasi David Bowie Is
David Bowie is.
Di certo nome non poteva essere più appropriato.
David Bowie È.
È la prova di come ogni espressione artistica sia collegata, di come l’arte non sia mai fine a sé stessa ma anzi si nutra di forme diverse in funzione di un unico messaggio.
Bowie è teatro, musica, recitazione, danza, pittura, trasformismo, ascesa, dipendenza, declino,umanità, divinità.
Bowie è l’emersione di chi si nasconde, è un fulmine sul viso, zatteroni e tutine sgargianti da cui far muovere chi si sente diverso ma che da quel fulmine e da quella forza si sente rappresentato.
Bowie è il glam rock. Senza di lui non ci sarebbe stato l’art rock, il glam metal, il progressive rock, la new wave, i Queen, i The Cure, Alice Cooper, i Def Leppard, i Depeche Mode, i Placebo, Madonna, gli Arcade Fire, i Kiss e Dio solo sa quanti altri.
Bowie è l’incarnazione dell’idea moderna del video musicale, secondo molti nata non con “Thriller” di Micheal Jackson ma con il suo “John, i’m only dancing” ben 10 anni prima, nel 1972.
David è L’Eroe, la voce di un popolo che chiedeva liberazione dall’oppressione del governo filosovietico della Germania Est che con “quel” muro aveva tarpato i sogni, l’amore, la comunicazione. Bowie è la libertà invocata cantando “Heroes” durante lo storico concerto del 1987 nel giardino del Reichstag, Germania Ovest, per i 750 anni di Berlino. Durante quell’occasione, il palco fu posizionato nei pressi del Muro in Unter den Linden, con gli altoparlanti rivolti verso l’altro lato del muro in modo da poter far ascoltare il concerto anche ai tanti cittadini della Germania Est accorsi al confine. Bowie iniziò a cantare ma cambiò il testo di “Heroes” in “the shame was on the other side”, provocando un’ovazione dei cittadini oltre il muro così violenta da distruggere le “barricate contenitive” della DDR innalzate per quell’occasione.
Bowie è una delle scintille che ha favorito la caduta del muro, è Berlino, è la Storia.
Sono passati 366 giorni.
Si dice che il lutto duri 3 anni ma tu non sei mai stato davvero di questa Terra. La tua assenza è inquantificabile, come l’eredità che hai lasciato.
Sono sicura che da qualche parte tu stia ancora ridendo con quel tuo ghigno ipnotico, beffandoti di chi ti credeva eccentrico, diverso, mortale, ingabbiabile.
Eri umanamente alieno, con tutta la tua voglia di sperimentare e insieme le tue contraddizioni e le debolezze che ti hanno reso prima uomo, poi maschera, poi personaggio e di nuovo uomo.
Ti vedo lì, vestito da Starman l’astronauta, a cavallo di un razzo rosso e celeste tra la Terra e l’Universo. Lì, racchiuso tra le palpebre, nel momento tra il sonno e la veglia, nel posto che spetta solo ai Grandi, agli immortali che non ci lasceranno mai soli.
Stasera voglio ricordarti così, sdraiata sul pavimento del terrazzo a cercare le stelle cadenti. So che ti troverò lì, sulla scia a forma di fulmine.
Grazie, David. 70 volte grazie per sempre.
© Isabella Di Bartolomeo
Foto di copertina: © Masayoshi Sukita
© Brian Duffy