Scritto da Giorgia Distefano
- Illustrato da Rosa Maria Di Molfetta -
Infuso alla pesca
Gli schiamazzi rimbombavano nell’angusto androne del condominio. Per le scale diroccate, i due ragazzini si tiravano calci dietro le ginocchia. Inciampando, si tenevano sui muri coi palmi. Le loro braccia erano livide, raschiate di una crudele muta fratellanza. Esclamando ingiurie reciproche, giunsero al portone arrugginito. L’aria era pervasa dall’odore di acquaragia e insetticida. Dalla porta scardinata del piano terra, strisciavano nubi di frittura di melanzane dell’anziana che viveva lì. Radio Maria dava il rosario quotidiano delle diciassette. La voce melanconica e ronzante suonava come fosse intrappolata nelle pareti umide: una recita disanimata che smuoveva soltanto i rigidi grani delle collane.
Il mio mal di testa avrebbe oppresso anche le menti più leggere.
Guardavo il cielo il cielo grigio, mi pesava addosso come un coperchio. Seduta sul davanzale della finestra, evitavo il divano turchese: aveva l’aria di una tomba da cui, una volta sdraiata, non mi sarei mai più rialzata.
Di notte, mi tormentava un sogno ricorrente. Una macchia umida e grassa ristagnava sul tessuto del sofà consumato. Colava fino al pavimento e s’infilava tra le travi di legno ammuffite. Riuscivo a percepire l’odore dolciastro e disgustoso dell’aria. Io, ormai putrefatta sul divano, continuavo a chiedermi dove fossero finite le mie ossa. Polveri per fattucchiere.
Mi svegliavo ogni volta con le braccia incrociate e un gonfiore maligno al cuore.
Poi prendevo le medicine e il caffè.
Sentii il portone con i suoi cigolii insofferenti sbattere, poi il suo tonfo esausto. La voce della signora Pina gracchiò ricca di ingiurie. Dalla finestra vidi i due ragazzini. Correvano per il cortile, tirandosi pugni sulle braccia. Uno afferrò la testa rasata dell’altro, se la mise sotto il braccio. «Tagghila, ca feti!» fu l’unica esclamazione del bambino incastrato, mentre mordeva l’arto che lo intrappolava. Riuscì a divincolarsi.
Il più alto saltò giù dall’alto muro che portava alla strada del quartiere. Ruzzolò a terra, si rialzò. I polpacci graffiati tra le fronde e la gramigna.
Si muovevano come animali selvaggi, scomposti.
Nel frattempo, il più piccolo stava dritto a osservare, con un sorriso sdentato. Un viso crudo e tenerissimo. Portava una canottiera lercia con due buchi slabbrati in corrispondenza delle cuciture dell’etichetta. Pronto a saltare il muro, finì tra le braccia già tese di suo fratello, che lo raccolse mentre cascava disordinato. Lo posò coi piedi in terra, e corsero via veloci, a ginocchiate alte.
La porta vibrò con tre scosse decise di nocche gentili.
Tirai la maniglia con noncuranza, sicuramente lì dietro c’era Mariuccia, ma nella lontana ipotesi non fosse stata lei? Magari mi avrebbe vista suo marito, forse la signora Pina. Avevo il maglione sporco di salsa di pomodoro e sentivo le labbra aride.
Il viso di Mariuccia non mi sorrise. Mi baciò le guance e si fece strada fino al tavolo in cucina.
«Vuoi un caffè?»
«No. Se mi puoi fare un tè, sennò niente.»
Attaccai il bollitore alla presa.
Fissai le bollicine risalire in superficie, il ronzio riempiva la stanza.
«A chi t’aiu a cuntari!» il suo anello nuziale incontrò il duro legno del tavolo. Indossava un maglioncino rosa intrecciato, con delle perline bianche cucite sopra. Aveva sottili capelli tinti di biondo, che si diradavano sopra le spalle. Era magra come una bambina, ma diceva che col parto aveva preso sette chili e due taglie di seno in più. Scendeva da me quando il minuscolo Giuseppe dormiva. Il bambino l’avevo visto poche volte, solo di sfuggita. Mariuccia non se lo portava, perché non voleva fargli respirare l’odore di tabacco che avvelenava le mie stanze. Al marito di Mariuccia, Rosario, io non piacevo, perché non ridevo mai.
Si erano conosciuti alle scuole medie, avevano fatto la fuitina. Abitarono nella dependance dei genitori di Rosario per circa un anno e mezzo. A quattordici anni, Mariuccia partorì Sebastianello. A diciassette, Agatino. A ventiquattro, Giuseppe. Rosario si era sfiancato di lavoro, facendo il poliziotto. Mariuccia si era dedicata alla cura degli anziani con demenza, lei già lo faceva a sedici anni. Li imboccava, li lavava, cambiava i cateteri. Andava a casa loro e fingeva di essere figlia loro. Riceveva insulti e maledizioni, senza prenderla sul personale. Lei era capace di capire quei cervelli corrosi meglio di qualsiasi psichiatra.
«Ce l’hai presente Tano ‘u pisciaru?»
«No, non credo».
«Avaia! Quello che sta ‘nda la via della signora Maria…»
«La signora che cuce i vestiti?»
«Ma no! L’altra signora Maria, quella che è zitella. Maria la sarta ha sette figli».
«Sì, sì. La mamma del signor Laudani, al piano di sotto».
«Brava».
«Va bene, ma quindi ‘sto Tano? Che gli è successo?»
«Cascau ‘da paranza. L’altro carusiddu che si era portato, si è spaventato tutto, e non si ci è ‘bbiatu a ricupigghiallu. U lassau ‘nmenzu o mari!»
«E come è finita?»
«Ca comu finiu, stubbita! Murìu!»
Le versai da bere un infuso alla pesca. Le offrivo sempre lo stesso, e a lei piaceva tantissimo. Mi portava ogni settimana una piccola scatola di latta piena di biscotti a forma di esse, con sopra i semi di sesamo. Li mangiavamo insieme, col tè.
Mariuccia. Avrei voluto capirla. Respirare col suo naso l’odore di latte delle teste morbide e calde dei suoi poppanti. Ma la mia apatia, queste sbarre di amarezza, mi allontanavano da qualsiasi tentativo di comprensione.
Mariuccia mi salutò, richiamata dal pianto disperato del suo bambino. Finalmente, se ne era andata. Ormai, mi ero assuefatta al veleno dolcissimo della solitudine.
Di notte, pensavo che la vita fosse crudele, sorda e meschina. Mi chiedevo quanti figli meritava di partorire il mio putrido corpo. Non ero capace di muovermi dal letto per ore, pure respirare m’affaticava. Mettere al mondo una creatura, spedirla a vivere e insegnarle la storia antica, dei musulmani in Sicilia, cantarle canzoni. Sperare che non si faccia investire, accoltellare, che non diventi un assassino, una donna di destra, un carabiniere, una psicologa freudiana. Le manie di controllo, la crudeltà del mondo. La mia incapacità di amare.
Un gesto ignobile partorire dei figli.
Finii per non cenare.
Fumai del tabacco dalla sua vecchia pipa.
Lui non sarebbe mai tornato a riprendersela. La poggiavo sempre su quel foglietto strappato, una poesia incompleta.
“Spec-chian-do-mi nei tuo-i oc-chi poz-zi; fred-da sot-to i tuo-i a-gru-me-ti; vi-ve la la-pi-de…”.
Si firmava col nome di uno scrittore che non potevo proprio soffrire, per questo lo aveva scelto, lo divertiva la mia espressione inorridita.
Inalando, tossii molte volte e mi venne la nausea, come ogni sera.
Se fosse tornato, mi dicevo, avremmo potuto non avere figli insieme.
© Racconto di Giorgia Distefano | Illustrazione di Rosa Maria Molfetta | Editing di Chiara Bianchi
Infuso alla pesca | Racconto | Indigeribili
Ti è piaciuto questo racconto indigeribile? Dacci una mano! Il tuo aiuto ci consente di mantenere le spese di questa piattaforma e continuare a diffondere l'arte.
L'associazione si sostiene senza pubblicità ma soltanto con le tessere associative e l'impegno dei soci.
I Link verso i canali di vendita sono inseriti al solo scopo di agevolare gli utenti all'acquisto.
Sottoscrivi la tessera associativa con una piccola donazione su PAYPAL
Oppure puoi offrirci un caffè.