Scritto da Francesca Casella
Illustrato da Giuliana Marigliano
Un ragazzo qualunque
20 novembre, 22.03 – Rabbia
Ci sono talmente tante luci intorno da non sembrare neanche notte. Il sangue punge sottopelle, il freddo non lascia scampo alla vita.
Io sto ferma davanti al cancello. Mi hanno chiesto di preparare qualcosa da dire per mia sorella. Le dita rovinano dietro il mio orecchio solo per un istante, sento i capelli trasformati già in paglia. La matita nera mi tira gli occhi, ne ho messa troppa. Gli addobbi di Natale infilzati in giardino non sono mai stati così interessanti.
- Sei pronta? Siamo in onda tra cinque minuti. Sai già come funziona?
La giornalista è bionda, la piega perfetta che non conosce le disgrazie dell'umidità.
Mi sto abituando alla confidenza che si prendono i giornalisti, al biasimo che ci mettono come se aspettassero di vedermi piangere da un momento all'altro.
Io non voglio piangere.
Annuisco.
«Quando vedi la luce rossa».
Devo aspettare la luce rossa.
Annuisco di nuovo.
Le labbra si stanno screpolando, le sento spaccarsi, ci passo i denti.
La luce bianca del faretto mi investe all'improvviso, chiudo gli occhi. La giornalista inizia a parlare, mi sforzo di aprirli di nuovo.
Silenzio, il respiro nelle orecchie.
È il mio turno.
Inquadro la luce rossa, il mio riflesso storpiato dal vetro scuro dell'obiettivo.
Voglio affondare lì dentro come una piaga, come gli artigli di un gatto che ti ferisce perché non vuole essere toccato. Infierisce perché devi stare fermo.
Schiudo le labbra ferite dal freddo e dalla bile.
Stacco.
18 novembre, 02.22 – Negoziazione
C’è un momento in cui la notte è davvero buia. Quando ha assorbito in sé ogni traccia di luce e quelle rade scaglie candide paiono malate apposta per farsi soffocare dalla caligine.
Quando Sergio e Pierluigi hanno raggiunto il punto della segnalazione era talmente tanto buio da fare paura. Nessuna grazia dalle stelle, la luna giaceva silente, gli alberi che circondavano la strada respiravano a fatica. Qualcosa giaceva vivo, qualcosa era già morto.
La radio ha gracchiato richieste a tempo spaiato nella volante, le parole sono rimbalzate tra i tronchi freddi dei pini. I fari rilucevano su una Punto nera, occhi di bue che illuminano un palcoscenico appena spogliato dal suo sipario. L’auto era ferma da qualche ora nella corsia di emergenza, si confondeva al buio come la migliore carta da parati alle pareti.
I fari sono rimasti accesi: due riflettori a illuminare la scenografia di cemento e metallo graffiato dal freddo.
Sono scesi entrambi dopo aver segnato la targa. I passi pesanti che scricchiolavano a terra hanno avvertito della loro presenza, un paio per fianco. Le luci delle torce rimandavano scie polverose, si riflettevano tra i vetri, tracciavano i contorni di un disordine confuso e stanco sui sedili posteriori.
Sono avanzati con cautela, finché non hanno scoperto il guidatore ancora al suo posto. Tutte e dieci le dita stringevano il volante. Quando si è voltato, la luce ha rivelato lo sguardo liquido, l’espressione rattrappita, sfinita, distrutta.
- L’ho uccisa io.
Gli occhi insopportabilmente tristi abitavano un dolore terribile.
Il buio aveva appena iniziato a sbiadirsi. La luce era ancora distante.
11 novembre, 21.34 – Depressione
Carlo usciva dal portone della sua palazzina grigia. Nient’altro che l’ennesimo quadrato urbano stipato nella zona industriale. Il cemento era umido, la nebbia appannava le luci dei lampioni. Niente da invidiare a Silent Hill, pensava mentre tirava fuori le sigarette. Indossava un maglione infeltrito a rombi lilla e verde, una giacca di finta pelle che il tempo stava rosicchiando in più punti.
Un’uscita che si sarebbe volentieri risparmiato se non fosse per la pisciatina serale di Mozart. Il bastardo della sua compagna. Bianco, piccolo e dal ringhio direttamente proporzionale alle sue dimensioni.
Il guinzaglio si allungava, emetteva un sibilo aspirato. La cartina della sigaretta si accartocciava preda dall’ossigenazione del fuoco. Avevano fatto già un giro dell’isolato:
«La vuoi fare oppure no? Prima vuoi uscire, vuoi pisciare, poi non vuoi pisciare più?».
Il cane si era fermato a zampe larghe, la coda dritta come un accento, le orecchie sollevate. Gli occhi scuri e vacui riflettevano Carlo: aveva la sua piena attenzione. Il bastardo verseggiava sommesso, qualcosa che ricordava una supplica, sollecitava l’attesa. Carlo sospirava, prima di tornare a muoversi. Decise di concentrarsi sulle locandine dei market vicini. Mancavano quarantaquattro giorni a Natale ma era già la sagra di panettoni e cioccolata – sia mai che qualcuno corra il rischio di morire affamato.
Ricominciò a camminare finché il guinzaglio non lo strattonò: Mozart era immobile. Zampe larghe, coda dritta, orecchie sollevate. Ma questa volta, la sua attenzione non era per Carlo. Davanti a lui, qualche albero, un vecchio muretto, un fascio di luce stantio e rosso – le luci posteriori di un’auto che aveva tirato il freno a mano.
I cani hanno questo dono invidiabile di percepire cose che all’orecchio umano sono precluse. E, dunque, Mozart percepiva prima di Carlo che a ridosso di quella luce rossa c’era qualcosa che non andava. Carlo ne ebbe la lacerante conferma nel momento in cui sentì all’improvviso il rumore concitato di passi, il tonfo di ossa contro l’asfalto e lo strazio di sole due parole – “lasciami andare”.
Mozart sobbalzò sul posto, si cavò di gola un verso, indeciso se abbaiare. Due ombre divoravano la luce rossa, il verso di un affondo, di unghie che si rompevano, il ritornello lacrimevole che ripeteva di nuovo “lasciami andare” – “lasciami andare”.
Mentre Mozart abbaiava, Carlo diceva al telefono che l’auto era una Punto nera, era già andata via.
5 maggio, 11.20 – Accettazione
I suoi capelli profumavano di buono. Fu l’odore di qualcosa di dolciastro che non riuscii a identificare e più si muoveva mentre scriveva, più mi costrinse a respirarla, a consegnarle il cervello tra le dita.
La griglia di luce pendeva sulle nostre teste, raschiò di un rumore basso e perenne come fosse sul punto di friggere. Qualcuno volse pagine plastificate, libri da martoriare con evidenziatori pastello.
Non una parola. Eppure, lì accanto a me, lei che si mosse timida e timorosa di farlo troppo, finì per reclamare tutta la mia attenzione. Furono i gesti di una banalità agghiacciante e imperdibile. Il suo gomito mi sfiorò per sbaglio, il fremito delle spalle quando lo scoprì, il sorriso silenzioso piegò le labbra sottili prima che mi chiedesse scusa.
Io sentii solo il suo respiro tranquillo, il rumore fragoroso dell’aria che le scivolò in gola – e io con lei, volli scivolarle in gola.
Ma ci pensi che nel nostro dialetto non esistono parole che significano ‘felicità’, le dissi così, la voce più bassa che l’avrebbe costretta a un’intimità forzata, la chiamò a me, ad avvicinarsi ancora. E io non volli nient’altro che contemplare la sua lingua tra le sue labbra.
Lei si voltò a guardarmi, dapprima sbirciandomi, poi sorridendomi. Finì per dirmi che, se non ne esistevano, ne avremmo inventate. Le parole fragorose e calde sul mio viso, pregne della ruvidezza di cui solo chi è puro è capace. Riconobbi solo in quel momento l’odore svenevole della vaniglia, la forma conturbante delle sopracciglia. Ci fu qualcosa di sensuale nelle lentiggini che avevo iniziato a contare sulla pelle così candida. Il disegno morboso degli occhi di cui non avrei più fatto a meno.
© Racconto di Francesca Casella | Illustrazione di Giuliana Marigliano | Editing di Chiara Bianchi
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